Una citazione al giorno

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Data Rivoluzionaria

A proposito delle ciliege triangolari

Se avete letto 'La tragedia delle ciliege triangolari' di Silvano Agosti sapete già di che cosa voglio parlare, se non lo avete letto potete trovare il breve testo incluso in questo pdf, scaricabile liberamente, dal titolo 'Il genocidio invisibile'.
Comincio dal fatto in sé, asciutto asciutto. Chi conosce la storia delle ciliege triangolari sa già che in quel capitoletto la maestra, dopo aver rimproverato il bambino per aver disegnato le ciliege triangolari e rosa, lo corregge e gli ordina di farle tonde e rosse. Ebbene, durante un corso di aggiornamento per docenti, dove ho parlato di pedagogia libertaria, ho avuto modo di leggere ai partecipanti anche 'La tragedia delle ciliege triangolari'. Alla fine del corso, e dopo aver chiarito alcuni aspetti della pedagogia libertaria, una collega è venuta da me a chiedermi conto e ragione di quelle ciliege (s'era legata al dito un'obiezione e voleva a tutti i costi rivolgermela), non tanto perché io mi ricredessi sulla pedagogia libertaria, ma per dimostrarmi implicitamente tutto il suo attaccamento al sistema e a quella pedagogia tradizionale che io definisco del 'si è sempre fatto così'. L'obiezione era questa: 'La maestra ha fatto bene a correggere il bambino, poiché tutti i bambini devono imparare che le ciliege sono tonde e rosse, e non triangolari e rosa'. Per inciso dico che per fortuna la mia collega si è limitata a questo senza scadere nella sequela di luoghi comuni e sciocchezze del genere 'altrimenti ognuno fa quel che gli pare e ci sarebbe anarchia', intendendo con questo la sciocchezza secondo cui anarchia equivale a caos e violenza e disordine, ecc. Invece in questo modo ho potuto sbrigarmi a risponderle. Il fatto si è -le ho detto- che quel bambino, per poter disegnare le ciliege triangolari, ha dovuto necessariamente avere delle ciliege un'esperienza precedente, se non avesse avuto questa esperienza (magari le ha pure mangiate) non avrebbe potuto disegnare alcuna ciliegia, men che meno triangolare.
Ho pensato poi: possibile che un ragionamento così semplice e logico le abbia fatto difetto? Possibile che anche il semplice e trito concetto di 'rielaborazione personale della realtà' le sia sparito del tutto? Sì, in questo tipo di società è possibilissimo, purtroppo. E non mi riferisco soltanto al caso specifico delle ciliege e circoscritto alla mia collega. Questa è una società dove gli automatismi mentali, i dogmi, le convenzioni, i formalismi, hanno finito per ingolfare la logica, il ragionamento, e pure il senso delle parole. Ne sono vittima anche io, non crediate, ma combatto gli automatismi, mi sono sempre messo in discussione per emanciparmi, e continuo a farlo. Perciò, quando sostengo che occorre mettere in dubbio ogni convinzione, lo dico a ragion veduta e vissuta sulla mia pelle. Però attenzione. Ho notato che quando si tratta di difendere il meccanismo sistemico societario, le persone diventano abilissime alla critica, ma è una critica non costruttiva, ferocissima proprio perché cieca, autoritaria e conservatrice. Ad esempio, qualche persona, anziché discutere intorno ai concetti qui espressi, potrebbe aprire una disquisizione infinita sull'uso della parola ciliege con o senza la 'i'. Sterili critiche formaliste a cui non bado più. Una buona critica costruttiva dovrebbe invece legarsi al rifiuto di rimanere ancorati al 'si è sempre fatto così', significa predisporsi a un vero cambiamento, significa progredire, guardare alla sostanza e non alla forma, avanzare nei fatti e sulla linea libertaria. 
Invece questa è una società che non vuole cambiare, è stabile sulla sua linea autoritaria (non ne conosce altre, e ciò che conosce di anarchico libertario è viziato dal pregiudizio), e d'altra parte la scuola è istituzionalmente preposta alla conservazione di questo tipo di società. Non chiedete alla maggioranza dei docenti di lasciare liberi i bambini di giocare, di divertirsi, di esprimersi, di scegliere... si offenderebbero o si arrabbierebbero. La maggior parte delle persone, docenti inclusi, vede nella libertà degli altri un mostro da combattere e da uccidere senza pietà, e queste persone ci riescono benissimo perché la legge e la morale in cui credono glielo consentono, e di questa legge e di questa morale si fanno forza, salvo poi predicare ipocritamente la libertà di espressione a destra e a manca, senza parlare della pace, della fratellanza, della giustizia. Parole. Per queste persone, una ciliegia triangolare rappresenta davvero una tragedia, per la loro falsa coscienza anzitutto! Quello che c'è a scuola è esattamente quello che c'è nella società, e viceversa, le due facce della medaglia concorrono -a circuito chiuso- alla loro autoformazione continua e autoritaria. La scuola forma la società, la società forma la scuola. Da dove partire per far cambiare le cose? Ci si arriva con un minimo di ragionamento.
Si dirà, credo a torto, che l'obiezione di quella mia collega ha dell'incredibile proprio perché è stata una docente a rivolgermela, cioè una persona che dovrebbe conoscere almeno teoricamente il significato di creatività, dovrebbe quantomeno conoscere i motivi per cui sono nate le Avanguardie, o il verso libero in poesia, o tutti quei cervelli che, accusati dalle istituzioni e dalla società, hanno poi fatto progredire l'umanità (anche se il progresso gestito dal sistema finisce sempre per giovare alle varie governances élitarie e padronali). Eppure, se a quella collega io ponessi la seguente domanda: per quale motivo gli artisti come André Derain (vedi foto) sovvertivano tutti i colori? sono sicuro che, in qualche modo, senza ricorrere ad alcuno studio specifico, si sforzerebbe di trovare i motivi per rispondere più o meno correttamente. Magari direbbe che 'le sue opere sono l'espressione di un sentire la realtà in modo del tutto personale', oppure potrebbe dire che 'quelli erano anni in cui la sovversione delle regole accademiche predisponeva alla sovversione delle regole sociali imposte'. Ecco, sono sicuro che cercherebbe le parole e i concetti per rispondermi più o meno così, e allora perché non le ha ricercate nel caso delle ciliege triangolari? Il fatto si è che resiste ancora la triste convinzione secondo cui i bambini sono esseri informi, inferiori, vuoti, da addestrare, da moralizzare, che debbano 'imparare a stare nella società', in questo tipo di società e non un'altra, esattamente come la società ordina, praticamente copiando dagli adulti totalmente scolarizzati e assorbendo da loro acriticamente (pena punizione) i loro dettami, il loro unico punto di vista 'serio' sul mondo, quello imparato a scuola, quello voluto dal sistema che serve proprio al sistema. Così non se ne esce più. Ma se è questo quello che vuole la società, allora dovrebbe essere fiera di sé e dei suoi risultati. Ma visto che la società di Stato continua a lamentarsi dei mali che si autoprocura da secoli, dovrebbe smetterla di clonare se stessa attraverso la scolarizzazione tradizionale dei bambini.
Una ciliegia è rotonda, perciò bisogna disegnarla così. E chi lo ha stabilito? E con quale diritto? E a quale scopo? E colui o colei che sostiene la copia fedele della realtà, è forse in grado di copiare fotograficamente una ciliegia? Può dimostrare tale abilità? E se sì (fatto raro), può dire se tale abilità risponde alle reali esigenze dell'umanità e della sua emancipazione? Domande, queste, le cui eventuali risposte gronderebbero di ignoranza, di violenza, di retorica, di vacuo, di oscurantismo, di adattamento. Che cosa vuol dire copiare se non riprodurre l'esistente, tale e quale, proprio come avviene in una catena di montaggio? A chi giova questa ri-produzione meccanica e di routine dell'esistente? Questa è la società dove la creatività è bandita, accusata, derisa, una società fatta di gente incapace di pensare con la propria testa, incapace di fantasia, di sogno, una società ripiegata sul suo nulla violento, e che pretende di insegnare se stessa ai bambini, ritenendoli degli idioti. L'addestramento alla copia è dappertutto, e che sia copia perfetta di ciò che viene imposto, dalla tv, dal cinema, dai videogiochi, dalle architetture cittadine, dalla morale autoritaria. Gli studenti copiano i loghi delle squadre di calcio e delle multinazionali, e quando si invitano gli studenti a creare un proprio logo molti di loro hanno evidenti difficoltà. Vedo bambini di 11 anni già addomesticati che mi dicono: 'non ho fantasia, preferisco copiare le figure del diario'. A chi pensate possa giovare tutto questo?
E' davvero il caso che io spieghi qui il significato di creatività? E' il caso che io esponga i meravigliosi motivi per cui gli artisti del Novecento abbiano guardato ai disegni dei bambini molto piccoli come vere opere d'arte? E' il caso che io dica, citando Fabrizio De Andrè, che sarebbe opportuno cominciare a mettere in discussione le consuetudini 'perché le pupille abituate a copiare inventino i mondi sui quali guardare'? No, non sarò io a spiegarvelo qui, fatevelo spiegare dai bambini di tre anni, osservandoli e lasciandoli in pace, ammesso che riusciate a sopportarvi nel vedervi così prigionieri di fronte alla loro splendida libertà.
P.S. Se ne avete ancora voglia, potete leggere le considerazioni di due ragazzine dopo aver letto in classe 'La tragedia delle ciliege triangolari'. Cliccate qui.

Rimasugli personali

Quando ero bambino avevo tre amici 'speciali', la cui specialità consisteva semplicemente nel fatto che erano gli amici con cui mi vedevo anche dopo la scuola. Si giocava spesso con cianfrusaglie, strani oggetti che ci si costruiva in strada. Ogni giorno un'avventura. Mi piaceva molto regalare a questi amici i miei giochi più cari (ricordo tre biglie dorate lucentissime), mi dava soddisfazione. E infatti in famiglia mi riferivano della mia generosità. Sarà per questo che a ogni natale non mi capacitavo dell'imperativo diffuso ad ogni angolo della società 'a natale bisogna essere più buoni'. Mi chiedevo: in che senso dovrei essere più buono? Insomma, sembrava che quel clima da buonismo autoritario, a comando, mi volesse far credere che io durante tutto l'anno facessi regolarmente 'il cattivo'. E poi, cattivo in che senso? Avrei dovuto sentirmi in colpa? Certo che sì, in questa società sentirsi in colpa è un obiettivo dottrinale pedagogico preciso. E invece prevalse in me l'umano orgoglio e una certa consapevolezza del mio essere in rapporto agli altri. Un giorno disertai il catechismo, a mia madre le dissi la verità: mi annoio da morire! Non fui obbligato ad andarci, continuai invece ad essere me stesso con gli amici, anche nelle liti. Penso che il torbido si nasconda sempre in quelli che ti spiegano come devi essere, e l'ipocrisia in quelli che dicono di farlo 'per il tuo bene'.

Dal dire al fare

 La buona pedagogia esige coerenza
Non è semplicemente predicando il bene che lo si ottiene. Se fossero sufficienti le parole avremmo risolto i nostri problemi da un pezzo. Servono invece azioni che siano esempi per la costruzione di un sistema culturale diverso da quello in cui siamo imprigionati. Noi, con le nostre azioni, con le nostre scelte, nei nostri rispettivi àmbiti e secondo le nostre diverse capacità, siamo in grado di cambiare il modello dominante autoritario.
E' perfettamente inutile predicare ai ragazzi l'eguaglianza nei diritti, la libertà, la pace, la solidarietà, la giustizia, se tutte queste belle parole non si traducono in fatti concreti. I ragazzi imparano copiando dal mondo degli adulti, dalle scelte e dalle azioni di questi ultimi, spetta agli adulti agire in coerenza con ciò che essi stessi predicano, ma dato che nella stragrande maggioranza dei casi questo non succede, possiamo affermare che gli adulti vivono continuamente dentro questa incoerenza. Purtroppo l'incoerenza è anch'essa un modello, e nella scuola tradizionale l'incoerenza è ovunque. Vorrei fare un esempio. Se un giorno una maestra spiega ai bambini che la parola 'democrazia' significa 'potere del popolo', e lo spiega mentre tutti gli altri giorni impone al suo popolo di studenti ogni tipo di ordine, utilizzando il ricatto del premio o la paura della punizione, questa è tutt'altro che democrazia, è dittatura, che si fa modello da copiare. Se vogliamo che il modello sociale rimanga per molti altri secoli quello che è, allora quella maestra farà bene a fare come ha sempre fatto, dichiarando attraverso ogni sua azione e dall'alto del suo scranno che non esiste alcuna eguaglianza nei diritti, poiché in questo tipo di società gerarchizzata qualcuno dev'essere più uguale degli altri, deve avere più diritti degli altri. Se quella maestra ritiene un pericolo il fatto che i bambini decidano in autonomia o che abbiano gli stessi suoi diritti, allora è perfettamente inutile che quella maestra parli di democrazia o di libertà o di giustizia, anzi è dannoso, poiché ciò che insegna a quei bambini è l'ipocrisia, un comportamento sociale fondato sulla falsità, un modello che è violento in sé, strutturalmente, nella gerarchizzazione dei ruoli. Se quella maestra ritiene che il suo modello sia quello più utile alla società, per coerenza con le sue azioni e con le sue convinzioni quella maestra dovrebbe predicare la presunta bontà della dittatura, non della democrazia, allora può darsi che i bambini apprezzeranno anche la coerenza tra il suo dire e il suo fare. Ma è bene sapere, quantomeno, che è molto stupido sperare di cambiare le cose facendo le stesse cose.
Certamente in questo tipo di società dittatoriale e punitiva cambiare le proprie scelte o distruggere le convinzioni tradizionali richiede non soltanto determinazione e autocritica, ma anche la consapevolezza che ciò che si è sempre fatto è sbagliato, e credo sia questo lo scoglio più grande da superare: avere consapevolezza degli errori, ammetterli, e saper cambiare nei fatti. Gli adulti, attraverso le loro scelte quotidiane, non fanno altro che adattarsi alla società autoritaria, e obbligano figli e studenti ad adattarvisi loro malgrado, non per cattiveria consapevole, ma perché pensano davvero che le loro scelte siano giuste, da insegnare; d'altra parte, sono loro quelli 'seri' -dicono- non certo i bambini che devono imparare a stare in questo tipo di società. Ma quando qualcuno chiede agli adulti il motivo delle loro scelte, essi non hanno altre risposte da dare che un retorico 'perché si è sempre fatto così' o 'perché è giusto così', che suona davvero come un'ammissione di colpa, un non voler cambiare nulla a tutto vantaggio del sistema. Non c'è la consapevolezza del fatto che un'altra strada esiste e la si può percorrere soltanto se riusciamo ad abbandonare le vecchie idee, la morale imposta. Da qui l'esigenza di cambiare noi adulti per primi, affinché si possa diventare esempi per i piccoli e, sembra un paradosso, ma sono proprio i più piccoli a darci gli esempi più concreti per un'umanità libera: seguiamoli, non indottriniamoli, cerchiamoli in noi stessi, assecondiamoli. Pascoli docet.
La stragrande maggioranza delle persone è convinta di fare il bene, di conoscere la verità delle cose, di essere nel giusto, salvo poi scontrarsi con la realtà, con la Storia, con i fatti di tutti i giorni, che smentiscono radicalmente le convinzioni comuni. Che cosa ha prodotto ad esempio la scuola fino a oggi? Quale tipo di società, se non la solita, abbrutita ed ebbra di autoritarismo e ignoranza? Eppure, sfido chiunque a trovare un solo docente che non si dichiari nel giusto, che non dichiari la propria bontà pedagogica, la propria comprensione, persino il proprio amore nei riguardi degli allievi. Sono pronto a dar loro ragione qualora ammettessero finalmente che tutta la loro indubbia professionalità e dedizione, tutto il loro amore e la comprensione, sono al completo servizio di questo tipo di società, non certo di un'altra, magari proprio quella che essi predicano ma non praticano. Ma ammettere il proprio servile servizio vuol dire anzitutto essere consapevoli di ciò che realmente si sta facendo, delle colpe che si hanno. E le stesse colpe della scuola tradizionale le ha ugualmente la famiglia tradizionale, come tutta la società che fa di tutto per insegnare ai bambini il suo conformismo, l'adattamento al sistema, il 'si è sempre fatto così'.
Allora badiamo ai fatti, alle azioni. Supponendo adesso che tutti gli insegnanti ammettano a se stessi che la direzione intrapresa è quella sbagliata, e che finalmente trovino anche la volontà di re-agire per lasciare crescere i bambini liberamente secondo il loro individuale e naturale progetto di vita, scoprirebbero presto che l'atto educativo non è il riempire la testa di informazioni prestabilite, già codificate; e non è neppure avere l'assurda pretesa di valutare e classificare le persone in base alle prestazioni ottenute. Scoprirebbero che tutto quel che hanno sempre fatto è esattamente l'opposto di quel che vuol dire educare, si accorgerebbero che il processo educativo è invece una relazione tra pari, è autoeducazione reciproca e continua che si svolge in un ambiente libero dove l'apprendimento è gioioso, 'incidentale' -per dirla alla Paul Goodman- non programmata, autonoma, dove il motore dell'apprendimento è la curiosità innata dei bambini, la loro naturale e gioiosa predisposizione alla scoperta, all'esperienza. Scoprirebbero con la pratica che il rispetto nei fatti delle singole diversità -ben lungi dall'essere un fatto retorico- è una ricchezza che si moltiplica esponenzialmente in termini di umanità, di solidarietà, di dignità e di informazioni. Scoprirebbero che non possono esistere campanelle, orari prestabiliti e decisi dall'alto per creare un'opera d'arte o per terminarla, o per leggere e far di conto, e neppure che un caporale nella classe-cella stia sullo scranno più alto a sorvegliare affinché tutti eseguano gli ordini da lui impartiti (pena la futura dissoluzione del consorzio umano). Scoprirebbero che adattare i giovani a questa società vuol dire addestrare, plasmare, indottrinare, creare coscienze credute inesistenti, allenare all'obbedienza, alla competizione, alla vendetta, alla paura, istruire i futuri lavoratori-sudditi alla catena del sistema, renderli il più possibile aderenti al modello mercantile e autoritario. Scoprirebbero tante altre cose, e si stupirebbero di quanto genocida fosse il loro 'prima' così strenuamente difeso e imposto.
Sarei anche io un ipocrita incoerente se scrivessi tutte queste parole senza dare e avere il mio bel contributo nella pratica quotidiana, sia a scuola che fuori. Ma voglio dirlo, la pedagogia libertaria che metto in pratica in una scuola di Stato non ha certo vita facile, struttura e persone sono ostacoli non da poco, ma credo che sia proprio dentro una scuola di Stato che serva una pedagogia libertaria, così come è proprio dentro la nostra società che servono altri percorsi, altre conoscenze, altre pratiche, altre persone. E nonostante tutti gli ostacoli anche fisici che la scuola tradizionale pone al mio essere e a quello dei ragazzi, a cominciare dalla reclusione obbligata in una classe, ci sono pratiche libertarie che oltrepassano tutti gli ostacoli. In una scuola di Stato, ad esempio, è già cambiamento in senso umano far decidere ai ragazzi, farli scegliere in autonomia, non terrorizzarli con i ricatti attraverso quella mannaia dei giudizi sempre pronta a colpire e che genera ansia da prestazione, conflitti, litigi, vendette, sperequazioni... Lasciare liberi i ragazzi di discutere su un argomento, se vogliono discuterne, anche relativo al programma istituzionale, significa scoprire che questi ragazzi hanno anche visioni diverse, mondi diversi, muovono critiche, trovano altre soluzioni. Non ho studenti al mio cospetto, ma persone intorno a me. Chi può pensare che tutto questo sia un male? Io non obbligo i ragazzi a dare la risposta fornita dal libro, non obbligo neppure a comprare il libro di testo, ma neanche a non comprarlo. La libertà è anche questo. Ci sono scelte e azioni che si possono fare anche nella scuola di Stato, anche se con evidenti difficoltà, alcune di queste azioni le ho riportate qui nel blog Scuola Libertaria. Si può fare, non basta dire.

Del depotenziamento degli individui

Ogni vita è un potenziale magnifico di naturale autodeterminazione. Un individuo autodeterminato difficilmente potrà accettare di essere privato delle sue prerogative, delle sue decisioni, dei suoi diritti, della sua autonomia, della sua morale, della sua vita. Perciò un establishment autoritario ed élitario, che ha affinato le sue tecniche violente nel corso di vari secoli, ha trovato gli strumenti perfetti per depotenziare gli individui al fine di renderli macchine biologiche atte a soddisfare i bisogni esclusivi di quell'élite. Deve farlo subito, da che si è infanti. La naturale autodeterminazione degli esseri umani si trasforma molto presto da un lato in docile sottomissione alle autorità, dall'altro nel desiderio di diventare un'autorità, dominando i più deboli o quelli che le maggioranze classificano tali. Trattasi di violenza strutturale, quella che non si vede e a cui non si bada.
Uno dei più efficaci strumenti di depotenziamento dell'autodeterminazione personale è la scuola tradizionale. Nel momento in cui qualcuno indica il posto in cui bisogna rimanere seduti, obbligando a fare ciò con una punizione o con un premio, lì comincia lo smantellamento dell'individuo in quanto tale, la dissoluzione dell'essere vivente autonomo, lo svuotamento dell'umano io, e questa azione di depotenziamento continua per tutta la vita oltre le mura della scuola. La responsabilità personale, la dignità, la volontà, persino il pensiero, così come la creatività, la libera scelta, il diritto di essere per come si vuole essere, diventano sostanzialmente ed effettivamente, già all'atto di nascita, affari di qualcun altro. A questo 'qualcun altro' ci si deve abituare presto, come alle sue direttive e alle sue punizioni, pena la pubblica accusa anche da parte di una società violenta formata culturalmente attraverso quegli stessi strumenti dell'élite che la società assume passivamente come modelli corretti per un'alta formazione morale e civile. Di questa alta formazione morale e civile ne raccogliamo ogni giorno tutti i frutti, da secoli e secoli, e sono tutt'altro che dolci.

Corollario.
I miei studenti mi scrivono delle lettere bellissime, vogliono con questo estendere la loro presenza nel mio cuore anche oltre la scuola, lo fanno disinteressatamente proprio come quando ci si incontra fuori e si sta insieme per il solo gusto di stare insieme. Scelgono di scrivermi in forma parlata, si auto-organizzano ed elaborano il testo. Sono lettere in cui emerge tra le righe il discorso dell'autonomia e della fiducia, elementi fondamentali del saper vivere responsabilmente, ma che mancano in questo tipo di società costretta a non vedere il modo in cui essa stessa viene formata. Nel corso di molti anni trascorsi nelle scuole ho raccolto lettere, biglietti, disegni, tutti a me indirizzati, e li ho messi dentro una valigetta. Dico sempre ai ragazzi che quella valigia rappresenta il mondo che sarà 'quando l'anarchia verrà', e siccome la giustizia e la libertà e la pace non sono cose che possono essere restituite da quelli che ce le hanno carpite, tocca a noi lottare per riprendercele e non regalarle più a nessuno.

Essere utili è una follia

Non esagero quando dico che per cambiare le cose bisogna cominciare a mettere in discussione ogni cosa. Ci sono convinzioni e pensieri e azioni che mai al mondo si penserebbe di demolire, come quella di considerarsi utili o di volerlo diventare. La scuola insegna a rendersi utili alla società. Quasi nessuno si pone la questione relativa all'utilità, anzi, di fronte a questo sacro obiettivo ogni 'buon educatore' (famiglia, scuola, chiesa, media, società) si sente un messia quando può dimostrare a tutti che la sua vittima educata ha raggiunto il top dell'utilità sociale. Un bel 110 e Lode, un ragazzo 'con la testa a posto', una ragazza 'a modo', e tutti applaudono. Benissimo: bisogna vedere però a quale tipo di società serve quel voto, quel genere di ragazzo e di ragazza. Certamente a questa: autoritaria, capitalista, mercantile, di stampo borghese fascioclericale, dove tutto si misura con la produttività e la pecunia, uomo compreso, in nome del Pil.

(Direi che anche io faccio parte della schiera dei 110 e Lode, lo dico per evitare incomprensioni, ma mi salva la consapevolezza del significato sociale di quel voto, quindi penso e agisco contraddicendolo con fierezza. Non mi hanno avuto come avrebbero voluto).
In questo tipo di società essere utili significa sostanzialmente adeguarsi, credere ciecamente negli snodi di questa società, nella sua cultura, nei suoi valori, nelle sue strutture, significa non ostacolare in alcun modo le sue funzioni di controllo e di oppressione (strumenti del vero disordine), rendersi docili e flessibili ad ogni decisione calata dall'alto, saper adoperare i suoi codici riproduttivi, il più ingannevole dei quali è senza dubbio l'esercizio del voto, questo mythos della partecipazione a una forma di autoreclusione dove tutti si lamentano sopravvivendo d'illusione e osservando il baratro.
In campo scolastico gli insegnanti sono -anche se spesso inconsapevolmente- lì apposta per far aderire perfettamente i pensieri e le azioni degli studenti al mondo degli adulti già socializzati, normalizzati, cittadinizzati, introdotti nella produzione e nella logica del profitto ad ogni costo. Gli insegnanti si preoccupano molto quando vedono un bambino che sta sempre isolato, ai margini, fuori dal gruppo, quel bambino -dicono- è asociale, ha seri problemi perché non interagisce con gli altri utili, quindi è un bambino inutile e bisogna intervenire con urgenza, bisogna farlo socializzare, insegnargli le nostre regole e la nostra morale per renderlo utilizzabile, insomma deve diventare al più presto un cagnolino addestrato come gli altri, un ingranaggio della produzione. Quasi a nessuno viene in mente che quel bambino sta benissimo nel modo che ha deciso e che sente, che il suo personale concetto di utilità è riferito semmai all'ambito dei suoi esclusivi bisogni che forse istintivamente rifiutano quelli della società di massa e dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. E' solo uno dei tanti esempi. Studia bene, fanciullo, che così avrai un buon lavoro (altro mythos) e sarai utile all'economia, al Pil, al ciclo di schiavi e padroni che noi chiamiamo società, civiltà, progresso e sviluppo.
E se non si lavora come si fa? Certo, oggi se non si lavora è un problema, ma in questa società il problema sussiste anche quando si lavora, cioè quando 'ci si rende utili', in altre parole quando si viene 'impiegati da qualcuno per', utilizzati come oggetti e macchine per far crescere il capitale che rimane sempre in mano a pochi. Che cosa fare allora? Intanto cominciamo a mettere in discussione la parola 'lavoro', ragioniamo sul concetto distorto che questa parola ha assunto in questa società (esattamente come la parola 'educazione'), e allora scopriremo che il lavoro può avere finalità diverse e davvero nobili solo se inserito in sistemi non competitivi, non gerarchici, anticapitalisti, umani, gioiosi, solidali. Allora sì che essere utili o desiderare di esserlo diventa strumento di vera emancipazione personale e umana. Il bellissimo video che segue è un'animazione che può mostrare il significato di 'utile' in questo tipo di società, dove tutto è gerarchizzato, e gli esseri umani vengono impiegati, utilizzati, arruolati, addestrati a voler essere tali.



Consiglio editoriale:
'L'abolizione del lavoro' di Bob Black (pdf)

Lo Stato e i suoi automi

Per rendere operativo un automa è necessario attivare dall'esterno un procedimento di istruzione. Senza istruzione l'automa non funziona. Non basta ancora. Bisogna stabilire a priori i compiti che l'automa dovrà svolgere. Decido allora che la funzione di questo automa sia quella di lavorare per me, che mi faccia vivere superlativamente con tutti gli agi, ma soprattutto dovrà imparare a difendere da solo sia la missione che dovrà compiere, sia chi gliel'avrà in-segnata. Dovrà credere che sia la sua missione. Difenderà quindi l'ordine impartito. Per ottenere tutto questo -dicevo- non basta l'istruzione, occorre un programma che qualifichi l'istruzione. Che cos'è un programma? E' una serie prestabilita di inputs, di elementi cognitivi esterni e precisi che, interagendo tra di loro, costruiscono -anzitutto all'interno dell'automa- il mondo in cui deve muoversi, e i suoi limiti: quel preciso mondo, limitato dagli elementi dati, costituirà la realtà dell'automa, una realtà che replicherà per programma dato e ordinato. 
Però ho un grosso problema: l'automa che ho di fronte è un neonato, questo vuol dire che è un essere umano, vivente. Che cos'è un essere umano? E' un organismo autopoietico che possiede già dentro di sé un progetto naturale di vita che, se lasciato libero di svilupparsi, creerà una realtà sua, diversa da quella che mi serve per i miei esclusivi interessi. Che cosa posso fare?
Posso sicuramente abituarlo all'idea. Dovrei addestrarlo alla mia realtà, e questo in un certo senso è facile, i bambini piccoli sono ottime spugne, basta dar loro l'esempio, crear loro un contesto ad hoc, e imparano velocemente e naturalmente (ah, la natura! Me ne servo bene quando voglio!). Gli costruirò delle sovrastrutture, una morale, la mia, e gli soffocherò la sua, lo istruirò per bene al mio programma, gli darò dogmi per i suoi bisogni spirituali e organizzativi, gli farò credere che la mia istruzione sia un sacrosanto diritto. Organizzerò per lui una programmazione speciale, nascosta, in grado di far diventare questo bambino un adulto che replichi e faccia replicare il mio programma, la mia realtà, la mia morale, la mia istruzione. Questione di disciplina. La disciplina: una parola di cui dovrà sentirsi orgoglioso.
Non avrò bisogno di riprogettare tutto ogni volta, ad ogni generazione, perché saranno gli adulti già programmati che programmeranno i figli a loro volta, automaticamente, a me basterà una seppur severa e capillare opera di mantenimento del programma, del contesto, una propaganda giocata a colpi di realtà, la mia realtà che chiamerò 'società civile'. In fondo, faccio esattamente quello che gli esseri umani hanno sempre fatto senza di me: imparare dalla comunità la vita e la cultura della loro stessa comunità. Ma adesso la comunità la invento io per loro, e loro vi si caleranno nei modi prestabiliti. E' 'cultura' -diranno fieri- senza neanche chiedersi quale tipo di cultura stiano osannando, conservando, perpetuando. Andranno matti per la parola 'cultura' tout-court, e per i libri che fornirò. La mia realtà competitiva la replicheranno ovunque, nelle dimensioni più diverse, nella famiglia tradizionale, nel condominio, nel posto di lavoro, nel quartiere, nel comune, ecc. Una miriade di piramidi che replicano la mia, tutto a mo' di frattale, e a mio esclusivo vantaggio.
Un momento. Che cosa succederebbe se la natura di alcuni di questi automi dovesse emergere comunque? Di certo qualcuno di loro sfuggirà al mio programma, alla mia istruzione, al mio progetto. Cosa posso fare? C'è da aver paura, ma nella mia realtà non dovrei essere io ad aver paura, però ne ho già tanta al sol pensiero di quei pochi non addomesticati che seguiranno sicuramente le informazioni della loro natura, finiranno prima o poi per scoprire il mio progetto pedagogico, penseranno con la loro testa. Posso difendermi. Posso anzitutto cercare di censurare altri tipi di informazioni, quelle a me ostili, quelle che svelano ogni cosa, in questo modo quei pochi sentiranno soltanto degli impulsi umani senza poterli decifrare con precisione, mentre tutti gli altri, dato che saranno ben pedagogizzati, si guarderanno dal voler conoscere quelle altre cose che io marchierò come 'sovversive' e 'pericolose'. Posso infatti inserire nel mio programma nascosto degli elementi specifici affinché la maggioranza prenda tutte le distanze da quelli che prospettano e costruiscono realtà diverse dalla mia. La massa di automi programmati in questo modo associerà automaticamente quei pochi umani all'idea del male, della violenza, del terrore, del caos, della paura, cioè a tutto quello che in verità sono io a generare, per il mio tornaconto. Credo che il progetto sia perfetto. Però, non so come mai, ho sempre una paura latente che avverto ogni momento. Sarà forse perché so di mentire, o forse perché so che qualcuno, anche se solo qualcuno, sfugge sempre al mio progetto e, inneggiando alla libertà, si rifiuta di funzionare come vorrei.

Fatti, non parole, magari distanza

Gli adulti dovrebbero avere l'interesse di mostrare ai bambini modelli di vita capaci di trasformare questa società in una società migliore, diversa. Il verbo mostrare lo intendo nel senso di agire, fare, operare, praticare. Sono le azioni determinate dalle scelte individuali, e non le sole parole usate a mo' di predica, quelle che costruiscono i modelli e il senso di ogni tipo di società. Nessuno meglio di un bambino sa cogliere l'ipocrisia degli adulti, quella che risiede nel fare esattamente l'opposto di ciò che essi dicono in tema di libertà o di giustizia o di eguaglianza... Se l'adulto, con il suo agire, con le sue scelte, non è in grado di garantire modelli di vera giustizia e umanità, se continua a contraddire se stesso, dovrebbe quantomeno stare lontano mille miglia dai bambini, in ogni caso non arrogarsi nessun diritto su di loro (salvo nei casi in cui è necessaria la difesa della sua persona), men che meno avere la pretesa di conoscere i loro bisogni. Neppure Janusz Korczack* -una vita (e una morte) con e per i bambini- era riuscito a comprendere il mondo delle necessità infantili, perché ogni bambino è naturalmente un mondo a sé, e tale dovrebbe rimanere, ma c'è bisogno di dirlo? Purtroppo sì! Inserire il bambino in percorsi obbligati di normalizzazione è un crimine:  
* 'Per me, e credo per ogni educatore, non esistono i ‘bambini’, esistono gli individui, così diversi, così estremamente differenti, ciascuno dei quali reagisce in maniera così diversa e particolare a tutto ciò che lo circonda [...] non trasformerò nessuno dei bambini in qualcosa di diverso da ciò che egli è. Una betulla rimarrà betulla, la quercia quercia...'
Ci si renderà conto, con un minimo di onestà intellettuale, che i modelli per una società migliore esistono già, e che questi modelli espressi dai bambini dovrebbero essere gli adulti a ripescarli, a trarli fuori da quei 'se stessi' che erano ieri, o reimpararli. Io passo molto tempo a osservare i bambini e le loro dinamiche, con i più piccoli uso molta cautela, ho paura -per così dire- di rompere quei cristalli meravigliosi e multicolori. Nel loro essere liberi e autonomi, i bambini sono. Serve altro? Da ciò imparo e insegno, mi indirizzo verso la comprensione e il rispetto di me stesso, oltre che delle diversità che mi vivono intorno. Diceva Lamberto Borghi: 
'L’educatore che non si preoccupa di individuare le caratteristiche singolari e irripetibili di ciascuno dei suoi alunni, che invece di concepire e condurre il suo lavoro come un apprendistato perenne e di vivere nella sua scuola e nella sua classe come in un 'laboratorio', adagiandosi invece nella bambagia delle idee generali, si colloca nel chiuso di una provincia pedagogica dove trasmissione di nozioni e di abiti di comportamento omogeneizzante, conformismo, livellamento, sono le forme strumentali, idonee alla conservazione dello stato di cose esistente, al servizio della perpetuazione del dominio, della società adulta'.
Il 'laboratorio' o 'apprendistato perenne' di cui parla Borghi è quel luogo dove avviene l'educazione attuata nel suo autentico senso, l'educazione intesa come autoeducazione permanente, relazione alla pari, o se volete 'educazione incidentale' (cfr. Paul Goodman), dove non può esistere struttura gerarchica o autoritaria, ricatti e paure, ma un libero e spontaneo scambio di informazioni desunte anche e soprattutto da un contesto altrettanto libero e spontaneo, cosa che una scuola tradizionale, 'pubblica' o privata che sia, non potrà mai garantire, dove persino il gioco è organizzato e l'oria d'aria sotto costante vigilanza. Un mondo libero è un mondo che si autoeduca alla libertà, con i fatti. 
Gli ingegneri-pedagoghi di questo tipo di società mercantile vogliono e ottengono esattamente il contrario di quel che dovrebbe essere 'educazione' o 'apprendimento' o 'scuola', e raggiungono il loro scopo con la complicità dei docenti, il più delle volte inconsapevoli; questi, una volta raggiunto il tanto agognato gradino un po' più alto, non si rendono conto di essere dei perfetti carcerieri al servizio del sistema, come lo erano stati i docenti delle trascorse generazioni (e non mi riferisco agli strumenti visibili come la bacchetta), e parlando retoricamente nelle classi-celle di eguaglianza e di diritti rimangono serenamente senza la minima intenzione di aprire la porta della prigione, semmai, sovrastati anche loro dalla paura e dal ricatto autoritario, aggiungono catenacci e controlli. 'Per il bene dei ragazzi', essi dicono. C'è mai stato un solo docente in tutta la storia della scuola che, in riferimento agli studenti, non abbia detto 'lo faccio per il loro bene' e che non si sia dichiarato nel giusto? Guardiamoci intorno: eccola qui la società costruita attraverso questo presunto 'bene e giusto' iniettato massicciamente dall'esterno e dall'alto con fare moralistico e retorico.

La scuola al servizio del capitale

Che la scuola debba servire il/al capitalismo è scritto anche negli undici saggi di Andrew Carnegie del 1890. Ma l'ordine perentorio di creare vere strutture di reclusione dove i futuri cittadini hanno il compito di addestrarsi all'autovolontà di obbedire alle autorità, è antecedente a quella data. 
Dopo l'esito della battaglia di Jena (1806), la Prussia, che vantava soldati superprofessionisti, non poté accettare la sconfitta: bisognava formare i giovani al rispetto assoluto della disciplina militare in modo ancora più incisivo. Fu allora che uno dei documenti più influenti della storia moderna (anche per il nazismo), cioè il 'Discorso alla nazione' di Johann Gottlieb Fichte, consegnò definitivamente la scuola al volere del capitale e dello Stato, una scuola forgiata ovviamente sul modello militare prussiano, esempio mondiale, e purtroppo non fu una velleità. Nel 1819 cominciò l'èra dell'istruzione forzata, attraverso la quale ogni persona avrebbe dovuto imparare non solo a ricevere ordini senza fiatare, ma persino a volerne. Così fu. E il capitalismo continua ancora oggi ad essere sostenuto dalle medesime strutture di istruzione forzata, dove la parola 'disciplina' è ancora adesso una delle più ostentate e usate nelle scuole, e con orgoglio! John Taylor Gatto utilizza non a caso e spesso il termine 'prussiana' per definire la scuola contemporanea e i suoi obiettivi nascosti ('...Il nostro sistema educativo è davvero prussiano in origine, e questo è davvero un motivo di preoccupazione...). Già nel 1819 questi obiettivi erano i seguenti:

1) Addestrare soldati obbedienti all'esercito.
2) Addestrare lavoratori obbedienti per le miniere.
3) Addestrare ottimi funzionari subordinati al servizio del governo.
4) Addestrare ottimi impiegati per l'industria.
5) Addestrare cittadini che pensino allo stesso modo (opinione pubblica).

L'evoluzione di questi obiettivi, e gli obiettivi stessi, se non siamo in grado di scorgerli all'interno della struttura scolastica, si possono ritrovare nei testi di Ivan Illich (qui), ma non si tratta propriamente di evoluzione degli obiettivi, direi meglio adattamento degli stessi alle esigenze mercantili. Preparare gli studenti al pensiero tradizionale, renderli una 'massa' di lavoratori accondiscendenti e mansueti, abituarli a ricevere ordini e a volerne (anelando al contempo a darne, a tutto svantaggio dei più deboli), riprodurre gli stessi meccanismi sociali gerarchici e competitivi, rimangono le finalità nascoste e primarie della scuola in tutto il mondo occidentale, con le dovute diverse sfumature dettate dalle singole tradizioni nazionali.
C'è purtroppo una grande distanza tra la consapevolezza di questi fatti e il modo comune di percepire la scuola. A quelli che si pongono la domanda 'che cosa possiamo fare'? posso dire che prendere coscienza è la prima cosa da fare, è l'inizio di una reazione resistente, sempre che si voglia scegliere di reagire. Per quanto mi riguarda -e chi mi legge lo sa- dentro e fuori la scuola rendo anzitutto partecipi i ragazzi di questa struttura militare entro cui i ragazzi e le ragazze coercitivamente si trovano. Ma non parlo solo della scuola. Lo Stato stesso ha struttura e cultura militari, d'altra parte è proprio lo Stato il modello strutturale e culturale di tutto ciò che è società, questo tipo di società, non un'altra. Per il resto, sia dentro che fuori la scuola, per me e per i ragazzi è anche una scoperta continua di soluzioni, e queste soluzioni vanno spontaneamente nella direzione opposta alla linea autoritaria e tradizionale, segno anche questo che la natura umana, l'intima essenza dell'essere umano, non si riconosce nell'autoritarismo.

A piccoli passi verso una realtà differente

Una pedagogia che ripete e promuove sempre gli stessi modelli non fa altro che negare quel cambiamento che essa stessa predica solo a parole. Cambiamento non vuol dire lavagne interattive e registri elettronici se questi rimangono inseriti nello stesso modello educativo. Creare una realtà differente significa adottare pratiche differenti e utopiche, non consuete, perché l'utopia, il sogno, sono le strade necessarie da percorrere per costruire un domani migliore, ma utopia e sogno sono anche le condizioni che caratterizzano la natura dell'essere umano. Nessuno può considerarsi umano senza utopie o sogni da raggiungere. E da sempre, le utopie hanno condotto prima alla ricerca, quindi al progresso. In questo senso è inutile aspettarsi immediatamente la realizzazione completa di una realtà differente, bisogna procedere per gradi, e il primo passo da fare è sicuramente quello di negare il modello scolastico tradizionale. Questo è ciò che si può fare oggi per il domani. Ed è ciò che ha fatto Paulo Freire nell'alfabetizzazione degli oppressi sudamericani. Freire diceva: 'bisogna fare oggi quel che è possibile fare oggi, per fare domani quel che è impossibile fare oggi'. L'utopia è un percorso, un viaggio che ha come scopo il viaggio stesso, ma sempre verso l'umano desiderio di libertà conquistata passo dopo passo. 
Ma anche la negazione del modello scolastico tradizionale necessita di steps, di percorsi graduati. Sarebbe una ingenuità quella di credere che un modello educativo libertario possa immediatamente sostituire quello tradizionale autoritario. La negazione deve prima passare attraverso una presa di coscienza individuale, serve avere un sogno e negare a se stessi tutto ciò che preclude il cammino verso quel sogno, serve sbarazzarsi della consuetudine, dell'abitudine, dei dogmi, di tutte le convinzioni dettate dalla tradizione culturale. Questo vale non soltanto in àmbito scolastico (ma è bene cominciare dalla scuola), e richiede un esercizio continuo di osservazione di se stessi, richiede una severità capace di forzare gli automatismi acquisiti e metabolizzati, agendo in funzione di quegli elementi utopici che, oltre a far cambiare le cose, sono anche garanzia e testimonianza di dignità umana. 'Fare oggi quel che è possibile fare oggi' non deve però essere il pretesto per dire a se stessi tanto è impossibile quindi non lo faccio, significa invece cominciare a predisporsi per il cambiamento e agire in questo senso nell'àmbito delle proprie capacità e dei propri contesti. Passo dopo passo, certo, ma senza attardarsi.

La patologia dell'autoritario

Chi tiene in mano le redini del potere autoritario, gerarchico, costituito, è fondamentalmente un censore. Il censore è sempre un caso patologico; Marcello Bernardi ne traccia anche lui un profilo psicologico tanto inquietante quanto veritiero, e individua le cause della sua mania che -attenzione- non riguarda solo la figura istituzionale o quella di colui o colei che generalmente si suol chiamare 'superiore', ma riguarda tutti i membri della società che, di quest'ultima, ne condividono metodi, cultura e finalità, perpetuando i suoi meccanismi ed esprimendo dissenso nei confronti di chi invece propone alternative, peraltro umane e tangibili. Senza contare gli apparati dello Stato, tra cui eminentemente la scuola e la famiglia tradizionale, che sono i vettori principali per la pedagogizzazione autoritaria della società. Cito Bernardi: 
'... Un'analisi anche modesta dei modi di agire del censore porterebbe a pensare che il disturbo fondamentale di cui egli soffre sia la paura. Paura soprattutto della libertà, propria e altrui. L'idea di non essere perennemente governato e guidato, in tutte le sue azioni e in tutte le circostanze, da una Legge superiore e sovrumana, e ancor più l'idea che chiunque altro possa sottrarsi a questa Legge, mobilita in lui angosciosi terrori. Egli è perseguitato da incubi sconvolgenti, da previsioni apocalittiche di rovina, di caos, di disgregazione delle civili istituzioni, di devastazioni, di disordine, di disfacimento del consorzio umano. Per lui nulla può essere liberamente godibile, tutto deve essere controllato, così che si possa eliminare senz'altro quanto non corrisponde alla Legge ...'
In queste parole io non vedo soltanto il legislatore, il giudice, il poliziotto, il capo tout-court, io vedo anche le singole persone, vedo tutta la nostra società soggiogata e culturalmente modellata sulla forma del potere autoritario. E le persone, nutrite anche dentro la scuola di questa cultura della paura e della competizione, non possono far altro che augurarsi di diventare capi a loro volta, censori, credendo così di risolvere i loro problemi, necessariamente a scapito di qualcun altro. Paulo Freire diceva: 'quando l'educazione non è libertaria, il sogno dell'oppresso è essere oppressore'.
Ho necessità di spingermi ancora più in là per ragioni già analizzate e comprovate dai fatti. E sarò lapidario, forse più di Bernardi: è ben più pericolosa e violenta una persona che ambisce al potere autoritario rispetto a quella che lo ha già conquistato, se non altro (e non è poco) perché la persona ambiziosa in questo senso è perennemente alla ricerca di astuzie e di ipocrisie per raggiungere il gradino più alto, che comunque non lo renderà mai sano e umano, al contrario, non v'è nulla di sano e di umano nel voler raggiungere una posizione che possa permettere a un individuo di piegare ai suoi voleri un altro individuo. Anche per questo la nostra società è malata e disumana. Ripeterò anche qui, in conclusione, una frase di Ivan Illich che sicuramente farà anche quella riflettere sulla necessità di porre fine alla patologia di cui soffre questo tipo di società statale: 'la scuola è l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com'è'.

Per leggere un intero capitolo sul rapporto censura/potere, riferitevi al libro di Marcello Bernardi 'Educazione e libertà', Rizzoli editore, 15 euro.

La scuola del progresso, solo a parole

Gli insegnanti, le insegnanti, dovrebbero opporsi con vigore all'apparato burocratico della scuola. Gli aspetti organizzativi e strutturali della scuola tradizionale, oltre a non aver mai fornito prova di efficacia dal punto di vista del progresso umano (tanto è vero che non si fa altro che escogitare 'migliorie organizzative', le quali, però, data la loro intrinseca natura autoritaria, vanno sempre nel verso opposto a quel che l'eventuale buon senso si aspetta), devono lasciare il posto agli aspetti massimamente umani e solidali, e non soltanto nei momenti in cui fa comodo all'uno o all'altro docente portare sul tavolo, ad esempio, l'emotività di un bambino o la sua particolare situazione familiare, magari per giustificare un voto più alto (ammesso e non concesso che il fine educativo sia un numero stampato sulla pagella). Nondimeno, secondo me, gli insegnanti dovrebbero lasciar perdere le trafile autoritarie e i ricatti dei voti (cominciamo da lì), optando invece per la messa in pratica delle cose che essi si aspettano di vedere dai discenti come risultato delle loro prediche. Non c'è ipocrisia più profonda -e il bambino la coglie al volo- di quella di un docente che predica l'uguaglianza dei diritti e poi pretende di ergersi a individuo superiore in tutte le cose che fa.
Certo, in un siffatto sistema gerarchizzato, non è facile agire per come si predica. Quindi sarebbe meglio dire ai ragazzi in classe la verità, chessò, ad esempio che è cosa buona avere tutti gli stessi diritti, ma che la struttura della società statale non lo permette, come quella della scuola, o dell'ufficio, o della fabbrica, o della famiglia, ecc. Un po' di verità non fa male, o forse sì? Di certo non fa male ai ragazzi, ne hanno bisogno, i ragazzi hanno necessità di una risposta onesta alla loro costante domanda: 'ma perché i prof e gli adulti in generale non fanno mai quello che predicano e che esigono da noi'?
Suggerirei perciò ai docenti di trovare le strade più sincere e umane per portare avanti il discorso del rapporto con i ragazzi (perché l'educazione più sana e vera è un rapporto alla pari). Il problema non sono i ragazzi, sono gli adulti, siamo noi che dobbiamo mettere costantemente in discussione ogni consuetudine, ogni tradizionalismo, ogni pensiero o azione che, se interrogata, ha di solito la risposta 'si è sempre fatto così'. A volte i miei colleghi mi chiedono in che modo possiamo trovare strade nuove. Questi colleghi peccano di cecità, non si sono mai accorti che le strade nuove ce le hanno di fronte ogni giorno, in classe o a casa con i figli, ma non vogliono o non sanno vederle, così come non vogliono o non sanno imboccarle; sanno solo soffocarle e imporre ai ragazzi la loro unica strada, perché -continuano a dire- 'si è sempre fatto così'. Gli adulti di domani, posti oggi sulla strada di sempre, non potranno che perpetuare quella strada e imporla a loro volta. Perciò, non è cambiando gli strumenti all'interno delle aule-celle o perfezionando i sistemi autoritari-burocratici che si raggiunge il tanto sospirato cambiamento sociale, ma lasciando liberi i bambini e i ragazzi di esplorare e percorrere le strade che essi hanno già dentro, non per niente così diverse da quelle degli adulti. E' evidente che la burocrazia gambizza ogni percorso di libertà, perciò occorre che i docenti si oppongano alla sclerotizzazione burocratica, se hanno davvero a cuore l'umanità e la libertà, cioè le stesse cose in cui dicono di credere e che predicano a parole.

Marcello Bernardi: brano tratto da 'Educazione e libertà' (2009)

'...La scuola, quella tradizionale, è semplicemente un colossale impianto industriale per mezzo del quale si distribuiscono, a chi vuole e a chi non vuole, dosi massicce di anestetico intellettuale, culturale, politico e morale. Il suo prodotto finito è quel cittadino-modello desolante, amorfo e malleabile che è disperatamente incapace di critica, di ribellione e di autoaffermazione.

Su questo punto vale la pena di insistere: il diventare un maneggevole e volenteroso suddito è cosa meritoria per la scuola. Il non diventarlo cosa biasimevole. Ne consegue l'opportunità di neutralizzare i recalcitranti e, prima di tutto, separarli dagli altri. Il sistema scolastico fa di tutto per tracciare una chiara linea di demarcazione fra l'area dei remissivi e quella dei sediziosi.

Il metodo con cui si arriva a questa selezione è quello delle graduatorie di merito. In base a queste i bambini vengono divisi in categorie: i migliori, quelli così così e recuperabili, e i peggiori, non recuperabili.

I migliori, quelli che dimostrano la loro attitudine a raggiungere la licenza, il diploma e poi la maturità e la laurea, sono i bene ammaestrati, gli indottrinati, i manipolabili, quindi i fidati. I peggiori, destinati palesemente a restare senza titoli, senza etichette, senza cultura codificata, diventeranno individui imprevedibili e quindi infidi. Si provvede dunque a incoraggiare i primi in tutti i modi e a respingere i secondi. Se vuole ottenere l'approvazione e il plauso degli adulti, il bambino è pertanto costretto a darsi da fare, in qualsiasi maniera, per entrare nella categoria degli eletti.
E' così che nasce quel flagello scolastico che è la competizione. I compagni di scuola non sono più dei compagni, ma della gente da battere nella corsa verso il successo. un gioco stupido e disumanizzante che durerà per tutta la vita, che entrerà subdolamente a far parte della personalità del bambino e che lo porterà a diventare un miserevole scalatore sociale. Un gioco che sostituirà l'arrivismo al rapporto affettivo, la rivalità alla collaborazione, l'egoismo alla generosità'. 
 
(Marcello Bernardi, da Educazione e libertà)

L'umanità migliore emarginata per tradizione

Anche la famiglia tradizionale interferisce negativamente sulle libertà del bambino e sulla sua personalità. L'azione familiare di stampo tradizionale non fa altro che soffocare le libere espressioni del bambino, crea dipendenze, infonde paure, soprattutto nei confronti di tutto ciò che viene considerato non tradizionale, diverso, alternativo, libero. Come possiamo pensare di cambiare le cose, quando dalla famiglia alla scuola alla società è tutto così maledettamente ancorato alle cause stesse che ri-producono questo tipo di società malata e mercantile?
Io posso anche avere -come ho- argomenti validi (prove alla mano), sia per supportare il pensiero libertario, sia per confutare punto per punto gli snodi di questo sistema profondamente ingiusto e violento, ma so perfettamente che le mie parole, quand'anche ascoltate e applaudite nei luoghi di riunione degli adulti, non smuovono di un millimetro le posizioni di genitori e maestri convenzionali: questi ultimi tengono di più al loro ruolo autoritario che al concetto di persona o al rapporto paritario tra individui. 
Allora rimangono i bambini e le bambine, cioè tutta quell'umanità, la più sincera e pura, esentata coercitivamente e presuntuosamente dalla gestione attiva della comunità, occorre spiegare a questa umanità emarginata dagli adulti in quale tipo di modello sociale è venuta a trovarsi, spiegarle i deprecabili fini e i violenti mezzi di cui si serve questo sistema per perpetuarsi. Dobbiamo poter credere in un'umanità veramente nuova, e questa umanità esiste già, sono i bambini. Difendiamo la loro integrità e la loro purezza spiegando loro i meccanismi della macchina sociale, così malvagi, plasmanti e perversi (ammesso che questi meccanismi si conoscano davvero). Tutto il resto, secondo me, ha scarsa o nulla incidenza.

Le righe del quaderno e la normalizzazione dell'individuo

Non essere più abituati alla libertà, cioè essere profondamente normalizzati, può generare grande stupore quando si vedono compiere azioni considerate anormali (vedi), ma anche molta paura, addirittura terrore, quando si propone di affrontare qualcosa di diverso dall'ordinario, dal consueto, dal normato. Poi però, chi affronta quel falso terrore si accorge che non c'era davvero nulla di cui terrorizzarsi, anzi, c'era tutto da guadagnare.
Negli adulti, un esempio si può vedere quando viene prospettata loro una gestione politica diversa da quella imposta. 'Anarchia? Orrore! Giammai! Preferisco morire'! Si sa infatti che le persone adulte, in materia di politica, non riescono più a concepire altro che destra e sinistra, come se questi fossero gli unici due punti entro cui debba svolgersi tutta la loro vita (!), o di qua o di là, anche a costo di scoprire che non v'è nulla di diverso tra questi due punti ritenuti erroneamente estremi, quindi erroneamente opposti. La stessa repulsione si ha quando si prospetta una soluzione diversa dalla dittatura e dalla democrazia, che sembrano cose diverse, ma in realtà, nella sostanza, non lo sono. Le persone sono profondamente convinte che in quegli pseudo dualismi sia davvero contenuta tutta la loro esistenza e che non vi possa essere alternativa, se non il caos, l'oscuro ignoto, la morte. Mi ricorda la storia delle colonne d'Ercole.
Questa profonda convinzione è il frutto amaro di un albero sociale piantato nel terreno della propaganda statale, coltivato a forza di allenamento all'obbedienza. Ma riguardo a questo tema, vediamo come l'albero venga condizionato a crescere in maniera innaturale e distorta fin dai primi giorni di scuola.
Parlo dei quaderni della scuola elementare, ma questo non è che uno solo degli strumenti di manipolazione delle coscienze e dei comportamenti. Ci sarebbe da fare una tesi, forse qualcuno l'ha già fatta accorgendosi di quanto importante sia per lo Stato allenare il bambino ad obbedire all'ordine gerarchico, che vuol dire sostanzialmente 'vietato uscire dai binari che ti vengono imposti'.
Esistono studi percettivi alla base delle righe dei quaderni, motivazioni psicologiche che incidono profondamente nella coscienza di un bambino e che nulla hanno a che fare con le motivazioni di facciata vendute dal sistema (banalmente, 'imparare a scrivere bene' che, notate, è molto diverso da imparare a scrivere, e allora quel 'bene' assume in verità una valenza del tutto negativa e ipocrita). Le righe non sono frutto di un caso, né di una velleità estetica. Le righe accompagnano il bambino in un allenamento che lo farà evolvere con la paura costante di non sbagliare, di non uscire fuori dall'ordine imposto. L'allenamento è costante e progressivo. Man mano che il bambino cresce, arriva alla terza elementare dove persino il suo ego e il suo senso di individualità originale vengono sviliti in favore dell'ordine superiore e normalizzante. Facciamo chiarezza: la superficie della pagina rappresenta l'ordine superiore che detiene il potere sullo spazio sociale entro cui l'individuo dovrà collocarsi secondo le regole imposte dallo Stato. Tali regole, che sono le leggi, nei quaderni di scuola prendono il nome di righe e quadretti. Il bambino dovrà imparare a starci dentro, in maniera ordinata, allineata, pulita, remissiva, senza slanci, senza creatività, senza distorsioni, senza macchie, senza personalità, senza libertà, pena la punizione (brutto voto).
In prima elementare le pagine hanno righe di questo tipo (foto sotto), orizzontali e verticali. Si impone quindi una scansione persino ritmica e regolarissima del tempo e delle azioni dovuta anche alle colonne, il bambino viene cioè abituato a tutti quei ritmi ordinati dal sistema, inclusi i ritmi di produzione (soprattutto quelli direbbe Ivan Illich). Per inciso, lo stesso ruolo ha la campanella. Più si segue l'ordine imposto, più si è 'bravi'. Più si esce fuori dall'ordine, più si è 'cattivi e ignoranti'.


In terza elementare (foto sotto), i binari entro cui viene inserito il testo sono più stretti. Perché? L'istituzione ha sempre una motivazione di facciata e qui la motivazione ufficiale è la seguente: in terza elementare il bambino è in grado di scrivere di più, quindi un rigo più piccolo serve a far entrare più parole in una pagina. Ma l'esperienza ci dice che questo è vero solo in piccola parte. Tra l'altro, per il sistema consumistico in cui viviamo, sarebbe utile far continuare a scrivere nei binari grandi, sì da far consumare prima i quaderni, per farne comprare subito degli altri. Invece alla base c'è dell'altro, c'è la distruzione dell'ego. In psicografologia, chi scrive 'grande' dimostra un ego sostenuto, prevalente, una forte personalità. Questo è sconveniente per chi, come fa lo Stato con i cittadini, svolge un ruolo di controllo sui sottoposti. Il rigo piccolo impone un ridimensionamento della personalità rispetto all'ordine superiore, imbriglia qualsiasi slancio di personalità o di orgoglio, svilisce la fiducia in se stessi. Del resto, è quello che fa da sempre la scuola tradizionale, con ogni mezzo, non solo con i quaderni, e senza che i docenti stessi ne siano consapevoli (del resto sono ex studenti e sono a digiuno di pedagogia avanzata e libertaria).


Infatti la cosa che più nuoce in tutto questo è proprio il fatto che alle righe dei quaderni nessuno ci pensa, anzi, tutti credono che seguire quelle righe sia cosa giusta, doverosa, so di colleghi che si vantano della loro 'calligrafia' da ventennio fascista. Anche i bambini che arrivano alle medie sono già abituati a questa normalizzazione, tanto è vero che quando dico loro di utilizzare quaderni senza righe, lo stupore si stampa nei loro occhi. Ma non solo lo stupore, qui si parla persino di paura quando, di fronte ai fogli protocollo (verifiche), invito i ragazzi a scrivere di sbieco, o in tondo, o a spirale, o a zig-zag, o come vogliono loro (non è caos, ma ordine-altro, creativo, spontaneo). E li vedo esitare, li vedo non appoggiare per timore neppure la penna sul foglio, come se al foglio (l'ordine superiore) dovessero fare del male fisico; li vedo in tutto il loro asservimento chiedersi perché, chiedersi se sia giusto, prefigurarsi le punizioni imparate alle elementari. E questo terrore stampato nei loro occhi è esattamente uguale a quello degli adulti quando qualcuno dice loro che nella vita esiste qualcosa di diverso dalla destra e dalla sinistra, qualcosa di più vero, di più giusto, di più umano della dittatura e della democrazia: l'anarchia.

P.S. Per fortuna i bambini non sono così incancreniti come gli adulti, e scoprono che un altro sistema è anche divertente, oltre che possibile. E non fa per niente male.

Sezione interviste

Le persone fanno domande sulle scuole libertarie, segno che l'interesse riguardo a un'educazione che sia veramente tale, umana, è crescente e concreto. Spesso mi rivolgono domande in modo fugace, segnate da un sottinteso che suona come un 'rispondimi velocemente che non ho molto tempo adesso', e così anche le mie risposte non possono che seguire l'esigenza richiesta di una sintesi estrema, cosa difficilissima da fare in un campo che meriterebbe una misura di tempo più adeguata. Mi richiedono delle interviste, così ho inaugurato un'altra sezione (giù, sotto tutti i post della pagina), chi è interessato potrà trovare più facilmente forse quelle risposte che avrebbe voluto ricevere da me. L'ultima intervista è quella richiesta dal sito 'Intersezioni', che ringrazio. La trovate linkata nella sezione più giù, oppure cliccando QUI. Grazie anche a voi per quell'interesse di cui l'umanità ha urgentemente bisogno.

Germogli

Una mia ex studentessa così mi scrive:
'L'altra mattina pensavo ai suoi metodi di insegnamento che noi alunni giudicavamo "strani" e solo ora capisco, mi rendo conto di quanto fossero giusti e davvero costruttivi'.
Potremmo tutti pensare a quel modo di dire che recita più o meno così: l'importante è piantare i semi, qualcuno poi germoglierà. Ma penso non sia del tutto corretto come concetto. Parlando in termini umani, ogni seme preesiste, la natura lo crea e gli dà l'informazione genetica, che è poi quel 'progetto di vita' che ogni individuo porta con sé. Un progetto diverso per ognuno. Io non interro semi, semmai li tiro fuori da un certo tipo di terreno. Quello che cerco di fare -con tutti i limiti che sappiamo dato il luogo dove mi trovo- è invece offrire al seme un terreno diverso, curarlo, alimentarlo di sostanze nutritive, dare spazio vitale, opportunità di autonomo sviluppo a quel progetto di vita irripetibile. I germogli non devono incontrare ostacoli, essi sanno cosa devono fare, come devono crescere, come orientarsi. Può sembrare paradossale, ma non lo è:  un seme, se decide di germogliare come è suo scopo, non ha bisogno di giardinieri e di consorzi agrari. In questo senso concepisco la mia idea di 'descolarizzazione della società', certamente unita a una necessità di apprendimento incidentale, anch'esso cosa naturale e urgente.
Dicevo che il germoglio non dovrebbe incontrare ostacoli capaci di soffocarlo o di modificarne l'orientamento naturale, in questo frangente però -come negli altri- gli ostacoli ci sono stati, tanti, e fili spinati, e percorsi obbligati, dovuti tutti alla struttura scolastica tradizionale, al suo modello, ma tra divieti e imposizioni e paure inculcate, questo germoglio ha deciso autonomamente di riflettere oggi sul suo percorso di crescita e di sforare i limiti, oltrepassare gli ostacoli, e riprendere l'inclinazione naturale che è stato costretto a lasciare quando aveva tre anni di età: la natura vuole vincere sulle coercizioni, sulle barriere, sulle convenzioni. Ha già vinto. La ragazza oggi ha 16 anni, mi chiede di poter parlare con lei di questi temi, ha necessità di comprendere ancora di più certi snodi, chiede in fondo a se stessa di essere più consapevole. Ancora una volta ci sarò, perché me lo ha chiesto.

Problemi di spazio?

Fuori dalle quattro mura domestiche, nell'ora in cui decido di impiegare il mio tempo libero all'aria aperta con nuove riflessioni per il mio libro, Thomas (12 anni) mi vede da lontano, si stacca dagli amici, mi si avvicina ('ciao, prof'!), e decide a sua volta di impiegare un po' di tempo con me. Ora, è certo che questo ragazzino abbia anche i suoi dilemmi, come tutti del resto, ma che si tratti di dilemmi relativi alla Storia dell'Arte, fuori dall'èra scolastica, mi ha onestamente sorpreso. Ognuno ha il diritto di risolvere i propri problemi, ma la questione di Thomas mi ha travolto intellettualmente e non ho potuto fare a meno di condividere con lui il suo dilemma. Venendo al sodo, Thomas, mettendo in parallelo i concetti più profondi dell'arte ellenistica con quella astratta (ah! quale ardito volo!), mi ha chiesto spiegazioni circa l'idea di spazio e di come questo possa diventare il limite per l'essere umano. Capirete dunque la mia sorpresa e il mio interesse. Avendo con me materiale per scrivere, e temendo di non seguire completamente il filo logico di Thomas, mi sono appuntato le frasi-chiave man mano che Thomas parlava. Una di queste frasi è proprio: 'io penso che lo spazio sia il limite dell'Uomo'. Ha detto proprio il limite, non un limite. La differenza è sostanziale. Onestamente, un'affermazione del genere l'ho letta soltanto in certi testi scritti non proprio per un ragazzino di 12 anni. Così mi sono premurato a chiedergli il motivo di quella affermazione. 'Ma certo' -mi risponde- 'perché io penso che tra la realtà e la fantasia c'è lo spazio'. Per essere sicuro di aver capito bene, gli chiedo perciò se intende lo spazio come un ostacolo posto tra noi e la nostra fantasia. 'Sì' -dice- 'lo spazio è come un muro, quindi l'arte astratta, dato che non contempla la realtà, forse ci insegna ad andare oltre quel muro, oltre lo spazio'. Fate pure tutte le considerazioni che volete, il discorso poi l'ho deviato su Lucio Fontana (cosciente della mia logica schifosamente accademica), ma al momento di salutarci gli ho promesso che avrei riflettuto sulle sue considerazioni, e che ci saremmo ritornati sopra.
Volete sapere una cosa? Thomas viene considerato dalla scuola un ragazzo assai problematico, introverso, scontroso, anche 'pericoloso, strano e inquietante' (testuale di una collega), invece è solo più profondo rispetto alla norma, ma questo suo essere oltre lo spazio normale (normato) non è ben visto dagli standard sociali, non viene capito, né digerito, perciò secondo la scuola Thomas va punito e puntellato o addirittura -come si è già purtroppo prospettato in un consiglio di classe- consegnato a uno specialista dell'Asl perchè riscontri e certifichi in lui i disturbi mentali che i miei colleghi dicono di vedere. Io invece vedo soltanto una persona che vuol ragionare sulle cose, forse a modo suo, con una logica tutta sua, ma perché punirlo per questo? Ce ne fossero, dico io!

Alice agli esami di terza media

L'addestramento delle bestiole si vede benissimo agli esami, esse ripetono spesso a memoria argomenti decisi da altri, nel modo in cui vogliono gli altri. Gli stessi argomenti per tutti, naturalmente, è il programma. Mi sembra di vedere in rassegna tanti cagnolini debitamente impauriti che hanno imparato ad alzare la zampetta tutti nello stesso modo, quello voluto dal padrone, quando lo dice lui, dietro suo comando. 'Parlerò del petrolio, degli USA, dei vulcani, e della Prima guerra mondiale', dicono le bestiole. Ci sono altre combinazioni, ad esempio Ungaretti, La Seconda guerra mondiale, i terremoti, l'Africa... Ma vere varianti? Rarissime, e tutte rigidamente controllate e desunte dalle fonti di regime. In ogni caso è formalmente vietato parlare di cose che 'non c'entrano niente col programma'.
E questo programma si ripete durante tutti i giorni d'esami, per decine di ragazzi in ogni scuola, da anni e anni, tanto che i miei colleghi non ne possono più di ascoltare sempre le stesse cose (figuriamoci io), ma non si chiedono neppure -proprio loro che si lamentano- se una così grande e potenziale varietà di esseri umani possa essere appiattita e riempita dalle medesime e trite conoscenze imposte a tutti, e poi su queste essere valutate come persone. Il presidente sbuffa, sussurra all'orecchio del collega: 'ma ancora con questo petrolio'? Il più bravo dei candidati, il 10 e lode, è quello che sa eseguire perfettamente l'esercizio, senza errori, con disinvoltura e con estremo 'senso di responsabilità'. Significa sottomissione assoluta alle autorità, fedeltà cieca al programma, alla morale imposta, nulla deve infatti uscire dai ranghi della consuetudine, persino l'abbigliamento e la postura (perché ogni soldatino sa bene che, se vuole avere la medaglia e passare di grado, deve anche curare la lucidatura dei bottoni). E poi, soprattutto agli esami, è molto più prudente 'non esporsi' con le opinioni personali, a meno che queste opinioni non risultino innocue alla morale, alla retorica, al 'socialmente giusto', e tali da non farsi poi etichettare in modo diverso da 'maturo', allora in questo caso l'opinione personale va bene, ma soltanto se rimane tempo, ma non ne rimane quasi mai.
Premessa doverosa (e pure soft), visto che Alice, una bestiola poco addestrata, quindi con un'autostima ancora pressoché integra e sicura di sé, ha scardinato insieme a me la tradizione secolare di una pedagogia nefasta che prepara i sudditi a pepetuare questo tipo di società mercantile. Parlo di Alice perché 'è passata' proprio oggi, ma potrei parlare di altri, cioè di quasi tutti quelli che all'esame discutono con me. Dopo la solita tiritera programmatica ripetuta alle autorità presenti, Alice si volta verso di me con l'aria di quella che sa già di poter dire finalmente quello che vuole e come vuole. Facciamo quindi un esame improntato sullo scambio di opinioni. Vado verso di lei, mi accovaccio fino a che i miei occhi non rimangono alla stessa altezza dei suoi, e le chiedo se sia stanca:
- Non tanto.
- Facciamo due chiacchiere, d'accordo?
- Ok.
- Alice, cosa ne pensi dell'Arte come strumento espressivo?
- Con l'Arte si comunica, quindi ci si esprime. Infatti gli artisti vogliono parlare alla società.
- E che cosa dicono gli artisti alla società?
- Ci sono artisti che vogliono mandare un messaggio di rivoluzione, di cambiamento.
- Però io penso che certi artisti non siano liberi di dire tutto quello che vogliono.
- Eh! Molte opere non vengono neanche esposte o stampate sui libri.
- Come al tempo del Realismo, giusto?
- Sì, Courbet, i suoi amici... ma anche altri, anche l'astrattismo... Hitler l'aveva eliminato.
- Ci vorrebbe più libertà.
- Ci dicono che esiste la libertà di stampa, ma questo non è vero, lo Stato non mi permette di dire pubblicamente quello che voglio.
- Bisognerebbe avere il diritto di dire quello che si ha voglia di dire, anche se è scomodo per la società. Gli artisti spesso esprimono opinioni che vanno contro l'opinione comune. Ascolta, secondo te, se ti concedono di dire quello che vuoi, tu puoi dire di avere ottenuto un diritto?
- No.
- Perché?
- Perché se mi concedono qualcosa non è un diritto, è come se mi stessero facendo un favore.

Abbasso la testa, sorrido, e alzo le mani di fronte a questi 14 anni.

La cultura della scuola

Che la scuola sia uno strumento che lo Stato fornisce ai cittadini per la loro cultura fa parte della mitologia nazional popolare, proprio perché l'argomentazione è solitamente posta in questi termini molto superficiali e retorici, senza un'analisi svolta a monte. E' vero, la cultura viene diffusa anche attraverso la scuola, ma la domanda che dovremmo porci dovrebbe essere la seguente: 'quale tipo di cultura'? Che poi la parola 'cultura' dovrebbe essere intesa nel suo senso originario (magari ne parlerò) per scoprire che non è poi una così bella parola. Per adesso usiamola come siamo abituati, tanto per capirci.
E' evidente che la scuola tradizionale, essendo uno strumento inventato e manovrato dal sistema, tenda a discriminare con cura la conoscenza, le fonti, diffondendo modelli e codici sceltissimi per un proprio tornaconto, e solo quelli. Se la cultura si trasforma in opinione, la scuola di massa forma l'opinione detta 'comune' o 'pubblica', nessuna deviazione è consentita. L'opinione comune è una disposizione culturale, io la immagino come un grande club a cui la massa deve obbligatoriamente aderire, fatta di modelli e di codici capaci di far riprodurre sempre la stessa opinione, lo stesso club. Se la società è stata formata attraverso una cultura autoritaria, essa, non conoscendo altro tipo di cultura, non farà altro che utilizzare sempre quei modelli e quei codici autoritari per autorigenerarsi. E' quindi solo quella parte di cultura posta sulla barra autoritaria che la scuola diffonde, mantenendo la massa totalmente ignorante su quanto invece si pone sulla barra libertaria, opposta. Michail Bakunin così diceva a proposito dell'ignoranza del popolo:
'Il popolo, per disgrazia, è tuttavia molto ignorante, ed è mantenuto nella sua ignoranza dagli sforzi sistematici di tutti i governi, i quali considerano questa ignoranza come una delle condizioni più essenziali della sua potenza'.
Per cambiare la società in senso non autoritario e solidale, il popolo dovrebbe anzitutto riuscire a raggiungere quel settore culturale libertario che lo Stato gli nasconde. Soprattutto i giovani, i più naturalmente portati al senso libertario, dovrebbero poter conoscere altri modelli, altri libri, altre funzionalità, altre vie. Non è un caso che proprio i giovani napoletani e fiorentini furono quelli che maggiormente accolsero entusiasti le parole di Bakunin allor che venne in Italia, e tuttavia l'opinione comune autoritaria ebbe la meglio anche allora, soffocando con tutto il peso della sua ignoranza diffusa la voce libertaria. Ma come far raggiungere l'altra parte di conoscenza alle masse, se proprio le masse sono state addestrate a credere che ciò che sanno è la sola cultura esistente, possibile e giusta? Quindi il sistema è riuscito a costruire la scuola non come un mero distributore di cultura, ma, selezionando quella cultura e utilizzando la sua stessa struttura gerarchica, l'ha creata come un ambiente dove si impara la cultura della scuola. E così avviene per gli altri settori della società. Come dire: lo Stato fornisce al popolo la cultura dello Stato. Lo Stato insegna a farsi amare e rispettare, tutto il resto -secondo lui- è cattivo. Ma la Storia e la cronaca lo smentiscono in modo eclatante.
Se i libri rigurgitano di nomi di dittatori, di guerre, di papi, di imperatori e generali, di partiti e capi di Stato... se ripetono i nomi dei soliti poeti e letterati, e nascondono invece tutti gli àmbiti libertari (poesia, sociologia, filosofia, antropologia, arte...), quale opinione o cultura potrà mai formarsi nella società se non quella autoritaria? Se a questo aggiungiamo anche il fatto che la cultura autoritaria non fa altro che addestrare le masse al disprezzo nei confronti degli àmbiti culturali anarchici, il cerchio si chiude in favore dell'autopoiesi autoritaria. Sì perché, come dicevo, l'opinione comune fondata sul modello statale gerarchico non permette deviazioni di sorta, soprattutto se le deviazioni vanno in senso anarchico, solidale, autogestionario, non autoritario. Un giorno un ragazzino a scuola mi ha detto: 'mia mamma dice che lei è pazzo'. Per la società sono un pazzo, è vero. Questo potrebbe essere un esempio di come l'ambiente societario scolarizzato sia stato formato -e si autoforma- eccellentissimamente per perpetuarsi così com'è, sempre secondo i canoni imposti dal club che sono tutti antilibertari. Per lo Stato, per la società scolarizzata, qualsiasi altra opinione dev'essere non soltanto nascosta, ma criminalizzata, bollata, classificata, e in tutti i modi espulsa. Anche questa io la chiamo violenza, e siccome non è una violenza di tipo evidente, ma è piuttosto culturale (vedi), non viene neanche percepita dalla società (e quando la percepisce la rigetta), la quale è formata da persone che si dicono tutte giuste e buone, ma che i fatti le contraddicono semplicemente perché la violenza della società è in origine culturale. Ora sì che potremmo dire: 'la scuola è uno strumento che lo Stato fornisce ai cittadini per la loro cultura'.

Gustavo Esteva

'...A quel punto, sia mia figlia che noi genitori sapevamo che il problema non è la qualità della scuola, ma la scuola stessa. Per quanto riconfigurassimo l’aula, il programma di studio, ecc., la scuola rimaneva il problema e non la soluzione. Per quanto la nostra scuola fosse libera, per quanto fossero belli l’albero e il giardino che sostituivano l’aula, per quanto gli insegnanti fossero aperti e creativi, la nostra scuola era ancora una scuola. (Illich l’avrebbe messo in luce con estrema chiarezza nel suo Descolarizzare la società, come ho scoperto molti anni dopo)'.

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