Una citazione al giorno

Una citazione al giorno -
Data Rivoluzionaria

Efficienza, merito e altre belle parole

Parlare di efficienza e di merito dentro un progetto sociale autoritario, mercantile e capitalista, significa parlare di valori che stanno a fondamento dello sfruttamento massivo degli individui. Chi sostiene che l'essere umano debba essere costantemente misurato, per giunta sulla base del suo adattamento alla macchina produttiva, non può che gioire di fronte alla retorica dell'efficienza e del merito. In questo tipo di società competitiva, efficiente e meritevole è sempre colui che, meglio o più di qualcun altro, è riuscito (non importa in che modo) a aderire al modello produttivo che sfrutta e aliena gli individui. Bisognerebbe quantomeno chiedersi che cosa è diventato questo - diciamo così - 'essere umano' a forza di dimostrare  la sua efficienza alla macchina della produzione, dietro ordine ricevuto e con il ricatto del premio o della punizione. 
La richiesta di efficienza e di merito da parte delle istituzioni non smette, anzi, viene continuamente riproposta in nome della crescita economica e del Pil. Dov'è l'essere umano? E' solo un numero messo in competizione con gli altri numeri, controllato a vista e misurato, valutato come una mucca in allevamento intensivo. A scuola il bambino viene addestrato da maestri efficienti a questo destino da produttore efficiente. Dico a scuola, cioè in quel posto dove le parole merito ed efficienza, unitamente alla parola disciplina, sono le più usate e ambite da qualsiasi docente o dirigente che voglia ricevere un applauso immediato e insindacabile.
Io dico sempre ai ragazzi che le parole possono anche sembrare 'belle', ma che è sbagliato soffermarsi sulla loro scorza, sarebbe invece opportuno individuare a priori la direzione che il sistema vuol farci prendere, anche attraverso quelle 'belle parole'. E in questa società la direzione non è mai libertaria, ma sempre autoritaria. Come non esultare anche di fronte alla parola 'sicurezza'? Ne parlerei per ore. Coraggio, chi non vorrebbe essere al sicuro? Ma proprio la direzione autoritaria del sistema è quella che dà al termine sicurezza un significato che inevitabilmente si traduce in coercizione, controllo, punizione, con la risibile scusante de 'lo faccio per il tuo bene'. A scuola quel 'lo faccio per il tuo bene' è un mantra, un tormentone che torna sempre utile (agli adulti già efficienti). Ed è sempre questo sistema che ci rende invece terribilmente insicuri proprio attraverso i suoi apparati di coercizione, sostenuti a colpi di legge, che tutti accettano o perché ammantate dall'illusione della 'sicurezza', o perché non esiste alcuna legge dello Stato che non preveda una punizione, qualora... ('se questo è un uomo'!)
Ma se il contrario di autoritario è libertario, qual è il contrario di 'efficienza e merito'? Nel suo magnifico libro 'L'educazione libertaria', Joel Spring parla di 'crescente autonomia inidividuale' da contrapporre alla logica del merito e dell'efficienza. Spring - anche lui - dice chiaramente che le istituzioni dipendono soltanto 'dalla volontà delle persone di accettare l'autorità e la legittimità di queste istituzioni' e che perciò la questione dovrebbe spostarsi dal 'come adattare l'individuo alla macchina sociale' al 'perché le persone sono disposte ad accettare il lavoro senza soddisfazione personale e un'autorità sociale che limita la loro libertà'. Tutto il libro di Spring, come lui stesso sottolinea, spiega questa 'condizione di accettazione', che è sostanzialmente 'il risultato degli ideali, delle credenze e delle ideologie messe in testa al bambino', e che lo conducono a diventare un adulto adattato, dove il lavoro, ritenuto un dovere, deve essere svolto con efficienza anche se questo non ha alcuna relazione con i propri bisogni e desideri. 
Spring individua perciò nella scuola libertaria il mezzo attraverso cui ogni individuo sviluppa quella 'crescente autonomia individuale' necessaria affinché non si pieghi all'autorità, e al contempo necessaria per una volontà di partecipazione diretta dell'organizzazione sociale, e tutto nella massima libertà. Saremmo di fronte a un radicale cambiamento - dice Spring - individuando nell'educazione il punto centrale della questione sociale e politica, perché - aggiunge - 'ciò che è accaduto è che gli obiettivi e i metodi educativi hanno rispecchiato gli interessi di coloro che detengono il potere nella società' e che l'educazione istituzionale è stata erroneamente percepita dalla gente come uno strumento per il miglioramento sociale.
'Questa situazione fa in modo che l'istruzione pubblica venga utilizzata principalmente come una forza conservativa dei problemi sociali. L'uso dell'istruzione pubblica come strumento di miglioramento sociale ha permesso alle persone di agire come se stessero facendo bene, senza però apportare modifiche fondamentali nella società. Nel XIX e nel XX secolo, l'educazione è stata vista come un mezzo per eliminare la povertà, la criminalità, il disordine urbano, attraverso l'insegnamento nella scuola di comportamenti sociali e abitudini lavorative. Questo significa che (per la scuola, ndt) il problema è il bambino o la bambina, e non che il sistema sociale debba essere cambiato'.

La tradizione tradizionalizza. Chiediamoci però che cosa

Non mi aspettavo di certo qualcosa di diverso da parte del nuovo dirigente scolastico nel corso del colloquio di rito. Non potevo contare sull'esplicazione, da parte sua, di concetti riguardanti ad esempio la centralità della persona o la libertà dello studente di essere soggetto attivo e non oggetto passivo (sto dicendo cose che sono ipocritamente scritte persino nelle 'Indicazioni nazionali per il curricolo'). Niente di tutto questo. Il dirigente scolastico, tra l'immensa quantità di cose da poter dire, ha scelto solo un argomento: la disciplina e il rispetto delle regole (quelle scritte e imposte dall'esterno per uno scopo preciso, naturalmente). Neanche una parola sui contenuti della materia o, chessoìo, sulla presunta 'libertà di insegnamento'. Ma non mi aspettavo qualcosa di diverso, come dicevo.
L'immaginario comune si inclina (e si inchina) sempre più favorevolmente e pericolosamente all'idea che l'insegnante debba essere un poliziotto e un giudice, più che un informatore. Più l'insegnante dimostra di essere in grado di reprimere e 'mantenere' l'ordine, più è considerato un bravo insegnante. Ed è questo che quel dirigente si aspetta anche da me, da tutti quanti. Del resto, una cultura fascistizzante e militare non può che passare attraverso la scuola e la famiglia tradizionale di stampo borghese, quest'ultima culturalmente fomata in questo tipo di scuola. Dunque il problema è la scuola, e del resto lo dicono i fatti. E un problema non si riforma, si elimina.
Si capiscono tante cose dai colloqui. Ad esempio il fatto che l'autorità scolastica, e sottolineo scolastica, si corrughi il sopracciglio in una smorfia di terrore anziché esultare di fronte a un insegnante che dice di occuparsi anche di pedagogia. Come dire: 'questo ne sa più di me, sa entrare meglio di me nello specifico dei fatti educativi, ergo è un pericolo'. Perché la scuola è anche questo, è l'ego autoritario dei dirigenti (spesso divenuti tali per soddisfarlo), dai cui capricci e velleità dipendono gran parte delle decisioni assunte acriticamente dai docenti, e che finiscono per modificare la vita di tutti, studenti e docenti presi in mucchio. Ogni eccezione conferma la regola.
Dal prossimo settembre mi troverò a lottare come ho sempre fatto, sapendo di non ricevere alcun tipo di solidarietà da parte di colleghi e colleghe, ma trovando solo nei ragazzi e nelle ragazze il senso del mio fare o del mio non fare, incontrando quella loro umanità che nessuna scuola vorrà mantenere integra a lungo, per disegno prestabilito. Per davvero non mi aspettavo qualcosa di diverso, sarei stato presuntuoso a crederlo, fintanto che si tratta di scuola tradizionale e istituzionale.


Francesca nella combriccola

La nostra combriccol(A), formata soprattutto da ex studenti, oggi ha accolto una ragazza sui 20 anni che è venuta a passare qualche giorno di vacanza qui, lontana dallo smog. Si chiama Francesca. Stamattina, quando ho raggiunto la combriccola, ho visto questa ragazza e ci siamo presentati. I ragazzi le avevano già parlato di me, quindi abbiamo bandito certi convenevoli. Come al solito, seduti tutti sul prato, si è parlato del più e del meno, della società, delle aspirazioni personali e così via. Dato che i ragazzi crescono anche intellettualmente, i discorsi ora si fanno sempre più profondi. Gioco forza. Impariamo tante cose scambiandoci opinioni ed esperienze, ma anche bighellonando. Soprattutto impariamo a stabilire rapporti molto complici nel pieno rispetto delle singole individualità e delle esigenze personali.
Francesca ama dipingere ed è uno spirito libero, studia pittura in Accademia. Mentre si discuteva, l'ho percepita molto ricettiva, curiosa. A un certo punto la ragazza ha tirato fuori dalla sua sacca un quaderno e ha cominciato a scrivere qualcosa. Stava prendendo appunti riguardo a ciò che si diceva; si stava ragionando sul contenuto di un libro, e lei aveva segnato sul suo quaderno il titolo del libro e il nome dell'autore. La curiosità e l'interesse verso un argomento sono i soli motori del vero apprendimento. E dire che di fronte a noi c'era proprio una scuola, cioè il luogo dove la voglia spontanea di apprendere viene solitamente repressa dall'obbligo e da tutto il resto. La cosa suonava come uno smacco, e ci piaceva. Ma tant'è, Francesca avrebbe comprato quel libro se io non glielo avessi regalato. Più tardi era andata a prendere qualcosa da mostrarmi. Si trattava di un librone pieno di suoi disegni, schizzi, pensieri e sogni tradotti in immagini, poesie, tracce. Tutti questi disegni portavano e portano il segno preciso di una grande fantasia. I ragazzi ed io ci siamo compiaciuti dei suoi lavori, ma soprattutto del suo essere, assai profondo e creativo. Le ho detto: sai una cosa, Francesca? ti sei salvata.
Alberto intanto aveva preso qualcosa dal suo marsupio, alcune sue poesie scritte sopra dei brandelli di carta, voleva che io le leggessi, e così ho fatto. Anche Matteo ha voluto che io leggessi le sue ultime cose, spiegandomi anche il contesto che le aveva ispirate e il suo stato emotivo in quel momento. Ho letto tutto a voce alta, a tratti mi sono emozionato, oltreché compiaciuto. Forse trascriverò parte di quelle poesie in questo blog, non so quando. Poi siamo andati a riparare la bicicletta che avevo depositato a casa di Matteo. Per quel lavoro ci siamo sistemati in cortile con attrezzi e buona volontà. E mentre la riparazione volgeva al termine, Francesca si divertiva con la fionda a centrare una bottiglia di plastica. Si divertiva moltissimo. Alla fine ci siamo seduti a parlare di permacultura e di come sia necessario stabilire un rapporto più stretto con la natura, anche per riuscire a mantenere integra la nostra.

Relazioni di fine anno

Ormai credo che abbia diciassette anni, Matteo. (Chi mi segue da un po' sa chi è Matteo). Quando aveva 14 anni, e già allora manifestava una coscienza libertaria ben delineata, pensavo che nel futuro, quando Matteo sarebbe diventato un ex studente, avrei conosciuto giorni dove i dialoghi con lui sarebbero stati ancora più profondi e acuti, nei limiti che ci sono propri. Credo che quei giorni siano arrivati. Adesso la cosa interessante, quando ci si incontra, è percepire in maniera netta quel buon legame che cresce, silenzioso, nonostante le rispettive vicissitudini e i periodi di lontananza. Allora il nostro parlare diventa non soltanto scambio di pensieri, ma manifestazione di quel buon legame, espressione di un noi per noi, complicità anarchica ormai esplicita. Potrei definire tutto questo amicizia fraterna, sentita reciprocamente.
In questi casi l'oggetto dei nostri discorsi può anche passare in secondo piano, quel che emerge è invece il bisogno di esserci. E qualsiasi scusa è buona per fare in modo di rivedersi e raccontarci. Gli ho chiesto se poteva custodire la mia bicicletta a casa sua, giusto il tempo per ripararla. Presto avvieremo i lavori alla bici, consci del fatto che quella è più che altro una scusa. Verrà ad aiutarci un altro ex studente, un habitué della combriccol(A). L'entusiasmo di Matteo è poi quasi esploso quando gli ho detto che forse sarebbe una cosa buona evadere dalla città per un pomeriggio, non fermarsi a bighellonare soltanto in periferia, ma proseguire, andare oltre, esplorare zone selvagge e boschive. Lo avevamo già fatto, ma oggi lui percepisce più chiaramente il fatto che l'esplorazione di nuovi orizzonti ha anche un valore simbolico o metaforico, che in fondo lo scopo del viaggio è il viaggio stesso, e per un anarchico credo anche essere se stessi un viaggio continuo. Avremo da decidere soltanto il punto cardinale. Poi via.
Mi ha visto raccogliere e mangiare della portulaca, non sapeva che si potesse mangiare, l'ho visto molto interessato a questa cosa. Ma d'altra parte Matteo è sempre stato attento al mondo vegetale: riesce a far germogliare qualsiasi tipo di seme in condizioni inconsuete. Purtroppo i meccanismi burocratici dello Stato lo tengono costantemente sotto pressione, ultimamente gli hanno appioppato uno psicologo (che idioti!), col risultato ironico che ora è lo psicologo che si confida con Matteo raccontandogli la sua vita, dicendogli che se è alle sue costole è solo perché anche lui, lo psicologo, è stato costretto dalla burocrazia. Mi ha fatto sorridere. Abbiamo pensato che dentro questa società, è vero, certe risate hanno sempre qualcosa di molto amaro. Ma prima che l'amaro possa contaminarci irrimediabilmente, noi saremo già oltre. Siamo in viaggio, un buon viaggio.

A volte mi chiedono

A volte mi chiedono per quale motivo io in rete non parli di 'anarchia in generale'. Capisco la domanda, non ne parlo per tanti motivi, a cominciare dal fatto che sui libri ne parlano molto meglio di me, e inoltre il mio impegno è piuttosto settoriale, si potrà facilmente intuire a quale settore mi riferisco. Ma qui parlerò di un altro motivo, se questo può soddisfare la curiosità di quanti nutrono interesse nei miei riguardi. Certo, preferisco soddisfare di più la curiosità dei bambini, come faccio ogni giorno rispondendo alle loro domande, la quale non ha altri scopi se non la voglia spontanea e naturale di imparare, ma vorrei provare a rispondere, a mio modo.
Per quanto io possa sapere di teoria generale (poco in rapporto, vivo principalmente di azioni) so di non poter pretendere nulla dalle mie parole, specie se l'oggetto della discussione è l'anarchia in generale'. So di non potermi aspettare illuminazioni altrui, aspettarmelo sarebbe da parte mia presuntuoso oltreché antilogico. Non credo infatti che occorrano le parole, quelle sole ed esterne, per far uscire la gente dalla trappola che essa stessa si crea. Potrei urlare 'liberatevi', ma sarebbe completamente inutile senza l'onesta volontà di liberazione da parte del mio interlocutore. Perché il punto è questo. Potrei parlare anni e anni di anarchia, non servirebbe a nulla senza il riscontro favorevole. Perciò la questione si sposta dal chi parla dall'esterno, al chi dovrebbe accogliere le parole. Io posso lanciare dei segnali per constatare se il ricevente è in attività ricettiva, ma se non ho risposta è inutile srotolare tutto il papiro e leggerlo per intero. Questo è ciò che penso adesso, in queste attuali condizioni, e supportato dall'esperienza anche pedagogica, che mi insegna che è meglio stimolare la curiosità piuttosto che offrire il piatto pronto.
Per andare sul personale 'andante con trasporto' direi che liberarsi è un atto individuale e volontario, richiede autosservazione, autoriflessione, volontà e responsabilità personale, tutto ciò che conduce a una presa di coscienza di nuovi punti di vista, spesso sbalorditivi e positivamente inaspettati, che non fanno certamente rimpiangere i vecchi. Quindi, almeno per me, è occorso e occorre del tempo. Leggersi dentro le parole, piuttosto. Non si tratta di mistica codificata e organizzata, di pratiche esoteriche, ma di un pensare in modo non mediato, personalissimo. Niente filtri esterni perturbatori. In questo pensare me stesso, io sono 'solo' anche se mi trovo con altri.
Io credo che ce la possano fare quelli che riescono ad avere un positivo animo critico, ma NON nei riguardi delle novità come spesso avviene (considerate una minaccia all'umanità), ma nei confronti delle consuetudini e dei valori a cui la società si è troppo affezionata. Essere critici con se stessi. Una bella impresa! E' difficile liberarsi, ma è certo che esiste un impulso in ognuno di noi che ci spinge in quella direzione, verso la libertà. Per 'critica' intendo il suo vero significato: 'punto di rottura e di svolta', e non la mera imprecazione lanciata contro i despoti di turno, o l'accusa funzionale solo alla difesa del potere costituito. L'imprecazione serve solo a sfogare una rabbia momentanea: va bene, ma poi? E l'accusa pretestuosa la lascio volentieri ai frequentatori di talk-show, reali o virtuali che siano.
Dicevo, 'punto di rottura e di svolta'. Chi mai riuscirebbe a criticare se stesso, cioè a dare una svolta totale al proprio modo di vedere le cose, che è poi quello che qualcuno ha deciso per tutti al fine di farci diventare 'bravi cittadini'? Chi oserebbe mettere in discussione feticci, convenzioni e automatismi culturali divenuti mentali? Chi vorrebbe diventare 'scomodo' o, andando contro la morale comune, essere preso per sognatore o sovversivo? Difficile vero? Ci sono convinzioni durissime a morire, e credo soprattutto da scoprire; sembra che a toglierci di dosso (di dentro) le sovrastrutture ci manchi il terreno sotto i piedi, mentre sono proprio le usualità assunte acriticamente che ci fanno camminare sul ciglio del baratro. E' difficilissimo distruggere le sovrastrutture culturali, la morale imposta, la presunzione di sapere... ma chi ci riesce, secondo me, può considerarsi una 'merce' preziosa, rara. 'Non son l'uno per cento', cantava Ferré riferendosi agli anarchci. 'Un indispensabile anticorpo della società', diceva De Andrè riferendosi a quei pochi artisti non integrati.
Perciò non posso pretendere nulla dalle mie parole. Anche queste che sto scrivendo adesso, da sole non bastano a 'dare impulso a una causa di libertà', serve altro, serve l'altro, e a tal proposito suggerirei di modificare il 'modello Jakobson' aggiungendo agli elementi della comunicazione quello che secondo me gli manca: la volontà altrui di recepire il messaggio. Anche senza questo elemento non ci potrà mai essere comunicazione, se poi nel concetto di comunicazione vogliamo inglobare anche il suo scopo primario, che è il comprendere per poi scegliere e agire.
Eppure, a guardare più attentamente le cose, ci si potrà accorgere che, all'interno del mio agire insieme agli altri, un agire quotidiano e credo massimamente rispettoso dell'individualità altrui, mi sembra che ci sia abbastanza materiale per poter individuare il carattere di quella che qualcuno chiama 'anarchia in generale'. Simpaticamente.

Dimenticare di essere nati liberi

Il neonato viene subito introdotto nel circuito del sistema per farne di lui un adattato sociale, un normalizzato, un autoritario, un richiedente istruzioni e assistenza. Prima si adegua ai codici coercitivi di questa società mercantile, meglio è. Ma fino a una certa età possiamo ancora vedere il bambino che, di fronte alla minaccia del genitore 'o fai come dico io, o ti punisco' (spesso non esiste neppure la minaccia, si passa alle vie di fatto) reagisce facendo il muso lungo, piangendo, recalcitrando, e soprattutto chiedendosi intimamente perché mai dovrebbe fare una cosa che ritiene ingiusta. Bisogna intendersi subito sul diritto-dovere dei genitori di intervenire arbitrariamente sui figli, e lo farò con Marcello Bernardi che così dice: 'le limitazioni alla libertà di un bambino sono giustificate solo quando sono indispensabili per la difesa della sua persona. Altrimenti sono dei veri e propri attentati alla sua persona'.
Questo tipo di umana reazione del bambino, che vorrebbe solo difendere i suoi diritti e la sua unicità, svanisce per effetto dell'educazione omologante e si fa largo un altro tipo di modello mentale e di comportamento, quello dell'adattato, del richiedente istruzioni. Il bambino imparerà col tempo a distogliere l'attenzione dall'ingiustizia della richiesta o della minaccia in sé, e si concentrerà invece sul come eseguire bene l'ordine senza così avere conseguenze punitive, come prescritto. Imparerà quindi che l'ordine in sé, accompagnato dalla punizione oppure dal premio nella versione adulatoria e subdola della richiesta, non deve essere messo in discussione, perché si tratta di normalità. 'Insomma, se lo fanno tutti, tu non fare il sovversivo'! Il bambino crederà che tutto nell'universo funzioni in questo modo, che non vi possono essere alterantive, e chi le propone è un sovversivo, un pazzo, un sognatore, un animale... Per inciso, chi ha mai letto Flatlandia?
L'unico problema del bambino sulla via dell'adattamento, appena introdotto nel circuito della produzione, è intanto quello di cercare le soluzioni più efficaci per non finire in punizione, ma al contempo per soddisfare i suoi bisogni. E' ancora un umano, ma in pieno conflitto con qualcosa che lo soffoca in quanto tale, e che gli fa intraprendere percorsi dolorosi, non voluti, già alienanti. La bugia detta ai genitori è quasi sempre una di queste soluzioni, che è sostanzialmente un inganno (il bambino lo sa, ne soffre, ma ancora in lui è più forte l'istinto di conservazione della propria libertà) che gli serve a conciliare, là dove è possibile, il proprio diritto a non eseguire un ordine, che ritiene ingiusto, con il volere dei genitori, cioè dell'autorità, della legge calata dall'alto. E' chiaro che l'ingenuità dei bambini è tale per cui la loro autodifesa per mezzo della bugia si rivela a volte comica ('non sono stato io a far cadere il vaso', quando in casa c'era solo lui), ma col passare del tempo egli imparerà ad affinare la tecnica ingannatoria, e non soltanto nei confronti dei genitori o delle autorità a lui più prossime, maestri e professori in testa. Imparerà quindi anche ad accusare gli altri (se in casa con lui c'era il cane o il fratellino, incolperà il cane o il fratellino) e a ricattare a sua volta ('se lo dici alla mamma ti faccio i dispetti').
Ma quando per varie ragioni non è più la bugia ad essere una soluzione, ma è invece il codice di legge ad essere considerato tale (e lo diventerà presto, in barba al buon senso sbandierato ovunque), allora la faccenda è più grave, poiché la persona già adattata, cioè quella che non ha più neppure la vaga idea dell'ingiustizia insita nell'ordine in sé, nella minaccia, nel ricatto, ma anzi lo perpetua con gli altri, sugli altri, eseguirà l'ordine soltanto 'perché lo dice la legge', e lo eseguirà acriticamente nelle forme e nei modi dettati dal sistema padronale, dall'istituzione. Come prescritto. L'umano bambino di prima è finalmente sconfitto, e con lui la sua libertà. Se prima il bambino in via di adattamento cercava ancora i modi meno dolorosi per non eseguire gli ordini (o per eseguirli con un minimo di salvaguardia della propria libertà), ora l'adulto perfettamente adattato trova immediatamente i modi per eseguirli, e li trova già confezionati: di ciò ne è felice, perché il sistema gli fornisce i pre-testi e le scusanti specifiche. Siamo arrivati a un punto della cosiddetta èra civile dove l'adulto, se non trova norme calate dall'alto per un problema che potrebbe risolvere da solo, le richiede a gran voce. In poche parole richiede governi, ordini, punizioni, e 'giustificazioni' preconfezionate. Non a caso, quando si parla di certi argomenti con un adulto normalizzato, le sue frasi sono spesso codificate, stereotipate, gonfie di retorica e di pregiudizi. Tutto acquisito culturalmente. Se i fatti smentiscono la retorica -come avviene- l'adattato si arrabbia, non con se stesso, ma con chi gli dimostra che la sua retorica non regge di fronte ai fatti.
Ci ricordiamo a questo punto dell'intima domanda del bambino non ancora adattato? 'Perché mai dovrei fare una cosa che ritengo ingiusta'? Nell'adulto adattato, nel bravo cittadino ligio al dovere e 'onesto', nella persona educata e per bene, quella domanda è ormai un'ombra remotissima, una questione che i figli devono imparare a soffocare e presto. Quella domanda si trasforma invece e di fatto in un imperativo che l'adulto ben educato rivolge a se stesso: 'devo fare così perché lo dice la legge, e se non lo faccio nei modi e nei tempi stabiliti mi puniscono; io lo posso anche trovare ingiusto, ma la legge è legge'. 
Tutto questo aderisce al modello generale imposto, al modus perpetuandi di questa società, laddove non ci si chiede più, ad esempio, se sia necessaria la scuola tradizionale (specie se obbligatoria), dati i suoi tragici effetti visibili ovunque, quanto invece se sia prudente disertarla, data la punizione prevista dalla legge. Ogni questione calata dall'alto, in questa società, si sposta dalla sua vera sostanza alle conseguenze previste in caso di disobbedienza. Non si affronta neppure la questione se sia umano un popolo governato attraverso la paura, perché ormai è tutto così orribilmente normale e consolidato, soprattutto la paura di tornare liberi e umani.
Qualcuno si chiedeva come mai i popoli obbediscono all'autorità costituita anche quando obbedire significa andare contro i propri interessi. Prodigi dell'educazione.

Il vento autoritario

Vivo e lavoro da servo ribelle in luoghi geografici a bassa densità demografica. Paesi piccoli per intenderci. E' stata una libera scelta, anche questa. Ci sono i pro e i contro; tra i contro, l'oscurantismo più agguerrito e tenace, ma anche una scuola convenzionale dove nel giro di pochi anni si può esaurire la carica potenziale di passione. Ci si logora in fretta, sia per l'autoritarismo di matrice provinciale (incrostazioni molto pesanti), sia perché in qualche modo si percepisce che un oltre è difficile da raggiungere senza solidarietà, quindi ciò che è fatto è fatto. Come alcuni forse sanno o intuiscono, infatti, nella scuola dove attualmente insegno non ho alcun tipo di sostegno morale da parte dei colleghi, semmai ho ostacoli quotidiani. Troppi. Vanno avanti da anni. 
Allora penso a quello che ho fatto concrertamente insieme ai ragazzi, parlo con loro, penso a loro, e alla fine dico a me stesso: qualcuno di loro si è salvato, sono contento, ne è valsa la pena. E poiché - dicevo - più in là non posso andare anche a causa delle difficoltà dovute ad un autoritarismo tanto ridicolo quanto esasperante (ne parlavo in un'intervista nel sito di David Gribble, Libertarian Education), che si traduce concretamente in autentica cattiveria e costante persecuzione legalizzata contro la mia persona, ho pensato di cambiare zona, cambiare scuola, incontrare nuove persone, altri ragazzi, altri paesini. Nella condizione in cui mi trovo adesso, cambiare scuola non può far altro che rigenerarmi, senza contare che ciò mi darebbe pure l'opportunità di far conoscere altrove la pedagogia libertaria e di educarsi reciprocamente in questo senso, appunto in maniera libera e viva insieme ad altri ragazzi/e, che sono persone e non animali da addestrare, men che meno all'obbedienza e al capitalismo.
Ciò non cancella od elimina il felicissimo rapporto che ho da anni con i miei attuali studenti ed ex studenti, semmai si espandono ancora di più le conoscenze, tutte quelle relazioni che fanno vita concreta, esperienze da condividere, conoscenza e apprendimento anche incidentale. 
Il granello di sabbia frustato dal vento non si rompe, salta di duna in duna, e si posa là dove l'apparato autoritario non avrebbe mai voluto, in altri suoi ingranaggi, ma è grazie al suo fetido vento che mi sposto e mi agito.


Gustavo Esteva

'...A quel punto, sia mia figlia che noi genitori sapevamo che il problema non è la qualità della scuola, ma la scuola stessa. Per quanto riconfigurassimo l’aula, il programma di studio, ecc., la scuola rimaneva il problema e non la soluzione. Per quanto la nostra scuola fosse libera, per quanto fossero belli l’albero e il giardino che sostituivano l’aula, per quanto gli insegnanti fossero aperti e creativi, la nostra scuola era ancora una scuola. (Illich l’avrebbe messo in luce con estrema chiarezza nel suo Descolarizzare la società, come ho scoperto molti anni dopo)'.

Lettori fissi