Quando ero bambino avevo tre amici 'speciali', la cui specialità consisteva semplicemente nel fatto che erano gli amici con cui mi vedevo anche dopo la scuola. Si giocava spesso con cianfrusaglie, strani oggetti che ci si costruiva in strada. Ogni giorno un'avventura. Mi piaceva molto regalare a questi amici i miei giochi più cari (ricordo tre biglie dorate lucentissime), mi dava soddisfazione. E infatti in famiglia mi riferivano della mia generosità. Sarà per questo che a ogni natale non mi capacitavo dell'imperativo diffuso ad ogni angolo della società 'a natale bisogna essere più buoni'. Mi chiedevo: in che senso dovrei essere più buono? Insomma, sembrava che quel clima da buonismo autoritario, a comando, mi volesse far credere che io durante tutto l'anno facessi regolarmente 'il cattivo'. E poi, cattivo in che senso? Avrei dovuto sentirmi in colpa? Certo che sì, in questa società sentirsi in colpa è un obiettivo dottrinale pedagogico preciso. E invece prevalse in me l'umano orgoglio e una certa consapevolezza del mio essere in rapporto agli altri. Un giorno disertai il catechismo, a mia madre le dissi la verità: mi annoio da morire! Non fui obbligato ad andarci, continuai invece ad essere me stesso con gli amici, anche nelle liti. Penso che il torbido si nasconda sempre in quelli che ti spiegano come devi essere, e l'ipocrisia in quelli che dicono di farlo 'per il tuo bene'.
Gustavo Esteva
'...A quel punto, sia mia figlia che noi genitori sapevamo che il problema non è la qualità della scuola, ma la scuola stessa. Per quanto riconfigurassimo l’aula, il programma di studio, ecc., la scuola rimaneva il problema e non la soluzione. Per quanto la nostra scuola fosse libera, per quanto fossero belli l’albero e il giardino che sostituivano l’aula, per quanto gli insegnanti fossero aperti e creativi, la nostra scuola era ancora una scuola. (Illich l’avrebbe messo in luce con estrema chiarezza nel suo Descolarizzare la società, come ho scoperto molti anni dopo)'.
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