Una citazione al giorno

Una citazione al giorno -
Data Rivoluzionaria

Prima esperienza di pittura per Giorgia

Oggi l'esercizio creativo si è basato sulla ricerca di una soluzione individuale per un problema comune. E' fondamentale che il concetto di creatività passi attraverso la ricerca di una personalissima emozione, sensazione, percezione. E' altresì importante che, di fronte a un problema comune, tutti abbiano l'opportunità di trovare la propria soluzione. Tutte le soluzioni vengono perciò prese in considerazione.
Il problema comune da risolvere è stato quello di costruire un'immagine a partire da due linee ondulate che ho tracciato alla lavagna. I ragazzi e le ragazze potevano copiare quelle linee o inventarne di nuove, ma da quelle linee sarebbe dovuta uscire un'immagine concreta assolutamente personale. Alla fine gli studenti sono riusciti a ottenere (e a dire, in modo creativo) quello che volevano.
Oggi però è stato un giorno speciale per Giorgia (11 anni), alla sua prima esperienza con dei colori diluibili in acqua. Qualche giorno fa Giorgia aveva manifestato il suo desiderio di dipingere; non lo aveva mai fatto prima perché sua mamma a casa glielo aveva sempre impedito per paura che la figlia sporcasse il tavolo. Giorgia non ha mai posseduto i colori a tempera, così ho portato da casa gli acrilici e i pennelli e glieli ho dati in gestione. Questi colori ora appartengono a tutto il gruppo classe, proprio come abbiamo fatto all'inizio dell'anno con la messa in comune dei pastelli (vedi). La soluzione trovata da Giorgia si può vedere in questa serie progressiva di fotografie:


Prima pennellata

OPERA FINITA

Significativo il fatto che Giorgia abbia dipinto il colore che esce dal tubetto. Se dovessi analizzare l'opera dal punto di vista semiologico, dovrei rifarmi al 'modello Jakobson' e alla funzione metalinguistica (in questo caso, parlare del colore utilizzando il colore stesso). Ma il livello di consapevolezza di Giorgia in merito alle funzioni del linguaggio di Roman Jakobson è pari a zero (per ora), perciò la lettura dell'opera deve concentrarsi esclusivamente sull'aspetto emotivo, inconscio. L'emozione di questa prima esperienza, che è stata filtrata dal livello progettuale-razionale, si è quindi concretizzata nell'immagine del materiale che ha generato quella stessa emozione.

Bakunin all'ingresso della scuola

Da tempo, in una classe prima (11 anni), stavamo coltivando un'idea: affiggere a scuola una citazione profonda, capace di aiutare a capire il modo in cui ogni progresso umano si sia potuto realizzare. Abbiamo alla fine deciso per la seguente frase di Michail Bakunin:



Come realizzare l'idea? Si è deciso di trascrivere le 54 lettere che compongono la frase su altrettanti cartoncini colorati:



Una volta trascritte le lettere sui cartoncini, le parole sono state composte, pronte per essere assemblate nella frase completa.



Le lettere sono state pinzate in modo volutamente sfalsato, per sottolineare sia il dinamismo (proprio dell'idea di progresso), sia la volontà di non seguire uno schema imposto, lineare, codificato e costrittivo.

La realizzazione dell'idea è stata affidata alle persone che per prime hanno dimostrato, in maniera autonoma e forte, la volontà e il piacere di procedere nell'esercizio manuale. Ma tutto è avvenuto in maniera naturale, non imposto: le prime due ragazze si sono lanciate, poi si sono aggregati tutti gli altri, ma tutti quanti, da soli, hanno capito che per quel tipo di lavoro si era veramente in troppi, e si poteva correre il rischio di generare un caos controproducente. Così una parte della classe si è spontaneamente e naturalmente autoesclusa, sì da far lavorare in serenità il gruppo iniziale. Gli autoesclusi hanno partecipato moralmente, emotivamente, aiutando nella ricerca dei materiali necessari.


I cartoncini dovevano essere fissati sulla cordicella portante. Le soluzioni da scegliere erano tante: nastro adesivo, pinzatrice, colla, ganci, mollettine da bucato. I ragazzi hanno deciso di legare i cartoncini con dello spago.

La cordicella portante è adesso tesa con tutte le parole di Bakunin appese: chiunque, entrando a scuola, può beneficiarne.


Effetto frase completa
Nota finale.
La bidella mi dice: 'non abbiamo scale di sicurezza perché tu possa salire a tendere il filo, ma puoi utilizzare un banco, e spero che una gamba del banco si spezzi quando ci sei sopra, così cadi e la smetti con tutte queste idee strane che hai'. Allora ho detto ai ragazzi: questa frase di Bakunin voi l'avete capita bene, sono invece gli adulti che non riescono proprio a capirla.

P.S. A causa della lunghezza della frase originaria, la seconda parte della stessa non l'abbiamo potuta concretizzare. La frase completa è la seguente: 'E' ricercando l'impossibile che l'Uomo ha realizzato il possibile, coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che pareva loro possibile non sono mai avanzati di un solo passo'.

Assemblea antibavaglio

Stamattina abbiamo dedicato mezz'ora a discutere sulla negazione del diritto ad esprimersi, una negazione data dal preside ai ragazzi in merito all'intitolazione di un plesso scolastico ad una suora autoritaria e manesca (post precedente).
La discussione è stata molto partecipata dal punto di vista emotivo. L'argomento, che tocca profondamente la coscienza e la dignità dei ragazzi e delle ragazze, ha avuto la giusta attenzione da parte di tutti, nessuno escluso.
Avendo aperto io l'assemblea, ho immediatamente fatto emergere le anomalie e le ipocrisie proprie del sistema scolastico e che si sono manifestate nell'avvenimento in questione. Dalla discussione, che ha avuto momenti interattivi pertinenti e formativi, è emerso quanto segue:
  1. Gli studenti e le studentesse non contano nulla agli occhi dell'autorità scolastica. Non vengono considerati/e neanche come persone. Questo è emerso palesemente anche perché il preside stesso, parlando ieri con alcuni studenti, ha detto loro che non hanno alcun diritto di opinione poiché non hanno compiuto 18 anni, non sono elettori, quindi non possono interferire sulle decisioni che li riguardano e che qualcuno decide dall'alto per loro.
  2. Il diritto di scelta dell'alunno, declamato da un testo di legge del 2004, non ha alcun seguito, alcun compimento, alcun significato all'interno delle aule scolastiche. Quando ai ragazzi ho chiesto di indicarmi le cose per le quali possono esercitare una libera e autonoma scelta, essi hanno risposto e convenuto di essere liberi soltanto nella scelta dell'attaccapanni dove appendere il soprabito o in quale lato del banco poter sistemare lo zaino e i libri.
  3. Gli studenti a scuola devono imparare a sopportare le ingiustizie, poiché questo allenamento li porterà, in futuro, a sopportare meglio i soprusi da parte di tutte le autorità, e persino a difendere l'autorità stessa.
  4. La 'centralità dello studente' e la 'centralità della persona' evocate ed auspicate dal succitato testo di legge del 2004, sono belle parole, ma assolutamente ingannevoli, disattese, e prive di qualunque applicazione effettiva e concreta.
L'unanimità degli studenti è convenuta su tutti i punti emersi. Si è preso atto del fatto che essere coscienti di quanto avvenuto basti al momento. Ho registrato una grande serietà nel corso di tutta l'assemblea. La messa in evidenza dei difetti del sistema scolastico ha reso ancora più coscienti gli studenti del 'programma nascosto' della scuola (cfr. Ivan Illich). Vista la tensione emotiva creatasi, e sovvertendo la legge, ho accompagnato la classe ai giardini dove abbiamo giocato con le altalene, con gli scivoli e a nascondino.

Il bavaglio agli studenti

I bambini devono imparare ad obbedire alle autorità, soprattutto quando le autorità si impossessano dei diritti delle persone. Perciò anche la legge-bavaglio si impara a scuola, si deve imparare a rispettarla. Un momento, dipende!
La storia è quella relativa all'intitolazione di una scuola a una suora definita 'educatrice' e all'opposizione dei ragazzini che sono usciti sia da quella scuola, sia dalle sberle della 'educatrice' in oggetto. I fatti di seguito.
Il Comune chiede alla scuola di far esprimere i docenti in merito all'intitolazione della scuola ad una suora che tanto 'bene' ha fatto alla comunità a suon di schiaffi e autoritarismo. Prontamente il dirigente scolastico fa stampare una foglio con la lista dei docenti e il relativo spazio ove apporre 'favorevole' e 'contrario'. Si tratta di un vero e proprio referendum a scrutinio palese, un foglio lasciato sul tavolo alla mercé di tutti, postini e giardinieri compresi. Naturalmente, la maggioranza dei docenti è stata favorevole, solo un contrario, io mi sono astenuto. La mia astensione viene da me sottoscritta con una nota a margine: 'sarebbe giusto chiedere il parere anche agli studenti'. Ma gli studenti possono mai avere diritto di opinione e di parola nella scuola di Stato? I ragazzini, i quali avevano un'idea precisissima, altra, circa il nome da dare alla scuola (che condivido appieno), sono stati ignorati, evitati, cancellati, calpestati, imbavagliati. Anche sulla mia astensione c'è stato da ridire, pensate un po'!
Quindi, secondo voi, chi ha vinto in questa assurda messinscena (perché tale è stata)? La suora manesca e fascista? L'istituzione fascista? Lo Stato fascista? La 'democrazia' fascista? Sì, ma solo momentaneamente, perché se oggi l'istituzione violenta ha vinto, domani la stessa istituzione dovrà fare i conti con dei ragazzini che già oggi stanno registrando tutto nella loro coscienza, e non è una buona immagine dell'istituzione quella che i ragazzini stanno registrando. Non ho bisogno di spiegare agli studenti quel che di orribile è stato fatto loro, lo hanno capito benissimo, sono tutti venuti da me a sfogarsi del trattamento ricevuto dallo Stato. Ma avremo modo di fare un'assemblea per discutere ancora sull'accaduto ed eventualmente sul da farsi.

P.S. Continuano a parlare di 'centralità della persona', e di 'centralità dello studente' ('...valorizzazione della dimensione umana [...] allievo considerato non più come destinatario passivo dell'offerta formativa o come oggetto da trattare, ma come soggetto attivo e responsabile, protagonista delle proprie scelte* e del suo percorso educativo e formativo).
(pagina 9 del 'documento di sintesi', Riforma 2004)

* come essere protagonisti delle proprie scelte, se allo studente non viene data la possibilità di scegliere o di decidere? Per 'scelta' forse si intende quella dell'acquisto dei diari personali.

fonte foto: internet

Il senso della morte presso i bambini

Come posso impedire ai ragazzi di esprimere liberamente il loro ricordo nei confronti di Mario? Il piccolo Mario, prima di andarsene per una grave malattia, è stato insieme a questi ragazzi per tutti gli anni delle elementari e anche per qualche momento di questo loro primo anno di medie. I ragazzi hanno vissuto la sofferenza di Mario anno dopo anno, imparando in maniera autonoma il rispetto nei suoi confronti, proteggendolo senza mai scadere nel patetico o nelle convenzioni. Bisogna sempre imparare dai piccoli. Ora a me dispiace che i colleghi non si rendano conto che i bambini hanno bisogno di ricordare Mario in maniera plateale, perché è questo il loro modo di esprimersi, hanno bisogno di confrontarsi tra di loro. Dei cosiddetti 'grandi' ne farebbero volentieri a meno, cosa che la scuola tradizionale non riesce proprio a capire. Quando in classe ci sono i miei colleghi, questi bambini sono costretti a vivere il loro lutto in maniera innaturale, introversa, non condivisa, ognuno nel proprio banco, ma -incredibile- stando comunque sempre attenti alla lezione. Una cosa impossibile e inumana.
Presso il bambino, l'assimilazione naturale del fatto luttuoso deve necessariamente passare attraverso una sorta di esorcismo collettivo, dove la collettività funge da leva emotiva e, allo stesso tempo, da cuscino paracolpi. Ma una collettività di bambini che condivide il lutto deve avere una caratteristica precisa: tutti, o la maggior parte di essi, devono conoscersi, al fine di autoconoscersi e riconoscersi nel sentimento degli altri. Si tratta di uno scambio necessario di relazioni emotive. Condividendo il lutto con una comunità di amici e di amiche, l'espressione del sentimento diventa quindi rito, dove però la liturgia non è codificata, bensì libera, autonoma, spontanea. Perciò guai a interagire nel loro rito fornendo regole, dettando liturgie, ordinando metodi e direzioni emotive. I bambini sanno cosa è giusto fare per la loro coscienza. Intromettersi è un crimine e noi adulti dobbiamo solo imparare da loro.
Nasce allora spontaneo il bisogno di ricordare il loro amico Mario, e i ragazzi sanno che con me possono esprimere liberamente i loro sentimenti. Le manifestazioni rituali spontanee che avvengono quando io sto insieme a loro sono parecchie e tutte rigorosamente plateali, condivise, le foto a corredo sono solo due esempi, ma non si contano più tutte le dediche e i disegni realizzati ovunque, sui fogli, sui banchi, sulla lavagna, sul muro del cortile, sui vasi realizzati col das. Non deve stupire la loro gioia apparente, perché quella gioia è la sublimazione della sofferenza che si trasforma in energia di vita, la stessa vita di cui anche la morte fa parte.
Come osiamo, noi adulti, dire che abbiamo cose da insegnare ai bambini?


Ciao, Mario.

Le lacrime di Cecilia

Aspetto che suoni la campanella della quarta ora, ho da entrare in una classe. La mia collega esce dall'aula e, sulla porta, mi dà l'avviso: 'Cecilia è in lacrime'. Chiedo il motivo. 'Ho fatto fare una verifica e lei ha preso 5, ora piange, poverina'.
C'è una discrepanza tra ciò che viene inferto agli studenti e il sentimento di certi docenti, qualcosa che posso definire ipocrisia metodologica. Da un lato il brutto voto imposto, dall'altra la tristezza del docente per averglielo dato. E' aberrante. Ciò denuncia lo stato di coercizione entro cui i docenti sono inconsciamente obbligati a vivere, una imposizione istituzionale che non lascia scampo: non importa se provi dolore, la punizione va data. Ma a che pro'? Chi ci guadagna da questo meccanismo aberrante, se non il sistema autoritario dello Stato che di aberrazioni vive? Qui siamo di fronte alla messa in primo piano del dovere istituzionale rispetto al sentimento umano. Quest'ultimo viene represso con violenza da una macchina burocratica che stritola tutto e passa sopra ogni cosa. Se analizziamo il caso, noteremo che sia il brutto voto, sia la repressione del sentimento del docente sono dannosissimi, per lo studente come per il docente. L'unico che gode di tutto questo è il sistema autoritario e gerarchico, il quale vede nel docente il suo kapò, e nel discente il futuro lavoratore-consumatore alienato, tenuto sotto stretto controllo e sottoposto a continuo giudizio.
Non voglio approfondire rimaneggiando elementi di psicologia, la questione è fin troppo chiara, non ha bisogno di ulteriori supporti dimostrativi. Proprio come me, anche la 'poverina' Cecilia sa bene che la pedagogia libertaria non verrebbe minimamente presa in considerazione dai miei colleghi, così non mi sono inoltrato in una discussione con l'insegnante triste dispensatrice di lacrime. Però con Cecilia ho parlato, era la cosa più importante da fare, ho cercato di riequilibrare i pesi, di compensare, ho cercato di ridarle fiducia e un gran sorriso ha sostituito le sue lacrime. Si è sistemata i bei capelli ondulati, ha rimesso gli occhiali, e alla fine il suo sguardo complice e orgoglioso mi ha parlato: 'ci siamo, prof, è tutto a posto'.
Ma come si può distruggere l'unicità e la preziosità di una persona con un voto? Come si può permettere la demolizione dell'autostima attraverso un voto su una verifica? Cos'è un voto, se non un giudizio perentorio calato dall'alto come in un tribunale da qualcuno che lo Stato ha assunto come suo giudice vendicatore? Possono mai, un voto, una verifica, il giudizio di un docente, esprimere l'immensa meraviglia che c'è dentro Cecilia e in tutte le persone del mondo? Quello stupendo caleidoscopio di pensieri, di idee, di sogni, di creatività, di ingenuità, di umanità... come può essere frantumato? Con quale diritto una persona può condannarne un'altra, giudicandola, inducendola alla paura nei suoi futuri atti? La persona si riassume forse in un numero? Si può quantificare l'essenza della variabilità umana? Inutile far capire queste cose a chi non sa che la materia in sé, il suo studio, sono solo il pretesto per una condanna o per un'assoluzione. In ballo non c'è la conoscenza della materia, ma la persona nella sua straordinaria variabilità, fragilità, unicità. Le lacrime dovrebbero essere un segnale preciso, oltreché evidente.
A ciò si aggiunge l'infelice frase di rito: 'vedrai che poi farai meglio', che suona come un'ingiunzione di pagamento previo sacrificio (per chi?), un'istigazione beffarda a eseguire perfettamente un ordine. Nessuno deve sbagliare, tutti devono 'rendere' anche più di quanto la natura abbia stabilito per ogni singola persona, e solo in quei precisi settori che altri, dall'alto, hanno deciso per lei. Non si possono neanche trovare altre strade, altre soluzioni, bisogna fare quella data cosa, nei tempi stabiliti, nei modi stabiliti, nel migliore dei modi, piaccia oppure no, è un'ordine! Lo studente allora si sente controllato, ispezionato, giudicato, valutato, governato, ma soprattutto terrorizzato, egli cresce con una paura costante di sbagliare, paura nei confronti dell'autorità, ed è questa paura che lo porterà nella vita a domandarsi ogni volta 'sto facendo bene per lui o per lei? Sto facendo bene per la legge? Sto facendo bene per l'opinione pubblica? Perché lo studente a scuola non percepisce mai un reale interesse nei suoi confronti, ma solo ordini per delle autorità da soddisfare, siano esse i professori, i genitori, gli adulti in generale, pena un giudizio e una punizione. Lo Stato, è vero, si impara a scuola, in questo tipo di scuola, sia essa pubblica o privata. E voglio evitare adesso la disquisizione sull'altra frase di rito ancora più terribile e ipocrita, 'lo faccio per te', perché chi legge avrà già intuito che in futuro quella frase si trasformerà in 'lo facciamo per la vostra sicurezza, per la vostra libertà'. E tutti inebetiti a crederlo davvero, altro che 'poverini'!

Vai Ceci che sei in gamba!

La crisi del docente di fronte a un altro metodo

Usciti dalle Università e terminata tutta la trafila per lavorare nella scuola, non mi pare che molti insegnanti si pongano seriamente il problema di come approcciarsi agli studenti e/o di come fare le lezioni. Questo perché una 'certa' esperienza scolastica l'abbiamo avuta tutti, che è la stessa esperienza dei padri, dei nonni, dei bisnonni, di tutti gli avi: professore in alto di qua, alunni in basso di là, in mezzo la legge e un metodo pedagogico autoritario. Quindi gli insegnati vengono catapultati nel mondo dell'infanzia e dell'adolescenza con quelle stesse informazioni metodologiche che hanno acquisito fin da piccoli. Quegli slanci di 'progressismo individuale' che raramente si registrano non fanno certo la differenza, semmai disorientano se non vengono assunti come paradigma o se non sono profondamente capiti anche dagli alunni. Di fatto, quello dell'insegnamento tradizionale rimane un metodo sostanzialmente improvvisato, ma di un'improvvisazione assolutamente prevedibile. Tu chiama un neolaureato e mettilo in una classe, non farà altro che ripetere il metodo di insegnamento che ha conosciuto.
Ammesso che alcuni insegnanti (pochissimi in proporzione al totale) abbiano studiato pedagogia, di certo quella che essi hanno dovuto studiare non è certo la pedagogia libertaria. Il massimo pedagogico raggiunto (il più delle volte solo nominalmente) è rappresentato dalla Montessori. Ma la stessa Montessori viene per giunta frantumata, e di tutti i pezzetti se ne utilizzano solo quelli che più convengono al sistema tradizionale. Comunque si va tutti in classe, una bella cattedra autoritaria ci attende, il libro e il registro ce li abbiamo, il programma ce lo studiamo per benino, lo intavoliamo, lo suddividiamo in base ai quadrimestri e ai ritmi imposti dalla legge, organizziamo i moduli, decidiamo tutto noi: obiettivi, scadenze, punizioni, premi, doveri, gite, permessi, verifiche, voti... Si tappa la bocca ad ogni ragazzino e poi in Collegio-docenti parliamo ipocritamente della 'centralità dello studente' (quando ne parliamo).
Questo per dire che non ci facciamo tanti scrupoli dopo l'Università, anzi, non vediamo l'ora di entrare in un'aula. In qualche modo andrà. Voglio dire ai giovani insegnanti che il loro 'peggio inconsapevole e strutturato' sarà ulteriormente peggiorato, ignorato e imbrigliato con la loro esperienza. Quindi è completamente assurdo pensare che un insegnante è tanto più 'bravo' quanto più lunga è la sua esperienza. Poi bisogna intendersi sul concetto di 'bravo'. Nel metodo scolastico tradizionale, un insegnante ritenuto 'bravo' è certamente colui o colei che meglio comanda e che ancora meglio si fa obbedire, ammansendo le coscienze, uccidendo ogni talento, affossando dignità e autostima, cassando le responsabilità, educando all'obbedienza. Tutto questo al di là della questione relativa alla conoscenza della propria materia. Qui si parla di metodo, di pedagogia, che è altra cosa.
Ma poniamo il caso di spiegare a un insegnante tradizionale qualcosa sulla pedagogia libertaria. Mi è successo l'altroieri, ero in viaggio con un'amica che ha 15 anni di servizio in un liceo statale. Dato che questo blog è un diario, voglio trascrivere il dialogo intercorso tra lei e me, a futura (mia) memoria.

- Conosci qualcosa sulla pedagogia libertaria?
- No, ehmmmm... che cos'è?
- Sinteticamente, è una pedagogia attraverso cui possiamo esaltare l'autostima, la responsabilità, la solidarietà, il senso critico, l'autonomia dei ragazzi... Con me i ragazzini decidono tutto loro, fanno le assemblee, organizzano da soli il programma, mi suggeriscono il 'come si può fare', insomma si autoresponsabilizzano, non esiste autorità alcuna.
- Va beh, dài, ma come fai?
- Dico loro che sono liberi di decidere, e loro decidono tutti insieme, in assemblea.
- No, io intendo, come si fa a livello pratico e concreto. Come fai?
- Ma tu intendi dire come si fa a fare lezione?

(parentesi di richiamo: ecco, è questa la domanda che la maggior parte degli insegnanti non si pone prima di essere catapultato nel mondo della scuola o, se tale domanda emerge, si riferisce piuttosto ad un aspetto formale e accademico della trasmissione univoca del sapere. Adesso invece diventa per loro un problema serio, incomprensibile, insolubile: 'come faccio la lezione'?).

- Sì, voglio proprio dire... come si fa a fare lezione?
- Non esiste un metodo standardizzato o preconfezionato. D'altra parte, anche tu non lo hai mai avuto nel tuo insegnamento tradizionale. Tu sei tu, con i tuoi pregi e i tuoi difetti, e che tu lo voglia o no sei in stretta relazione con i ragazzi, c'è un'empatia da cercare, da trovare, da alimentare, il resto viene da sé. Sii te stessa, e se i ragazzi si sentiranno liberi saranno loro stessi a suggerirti il 'come si fa'. Devi saper cogliere il loro richiamo. Spesso te lo dicono chiaramente: 'facciamo questo, prof'? Oppure, come mi è già successo: 'bella, prof! Ma quando facciamo quel capitolo che abbiamo deciso in assemblea'?
- Ok, ma più concretamente, praticamente... Non riesco a capire come si fa.
A questa reiterazione della sua domanda ho lasciato cadere il discorso. Ma cosa si aspettava la mia amica? Formule matematiche? Risposte a crocette stile invalsi? Soluzioni codificate per ogni problema? Programmi precisi di avviamento / spegnimento robot? Istruzioni per l'uso con disegni allegati? Parliamo di esseri umani o di lavatrici?

I miei ragazzi non chinano la testa!

Scoprire il modo in cui una coscienza decontaminata dall'etica di Stato reagisca autonomamente all'autorità è sempre un conforto. Scoprire poi che la reazione all'oppressione e all'ingiustizia venga portata avanti da una classe di tredicenni, mi riempie di orgoglio e fa ben sperare.
Così capita che ai ragazzini di una classe terza venga negato il diritto di andare alla macchinetta delle bevande durante la ricreazione per prendere la cioccolata. Motivo addotto dall'insegnante autoritaria: 'gli alunni non possono entrare in sala insegnanti'. Peccato che in tutta la scuola ci sia solo quella macchinetta, quella in sala insegnanti. Per inciso, quando in quella classe ci sono io, i ragazzi sanno benissimo che possono andare alla macchinetta, da clandestini, infrangendo il 'regolamento', ma vanno. Non perché sia io a concederglielo, ma perché è un loro diritto gustare la cioccolata! Non saranno docenti (per fortuna?), ma sono persone! Altro inciso: non hanno mai combinato guai, non hanno mai sfasciato la macchinetta, non hanno mai arrecato fastidio a nessuno, hanno sempre atteso il loro turno per inserire le monetine.
Invece no, per l'autorità scolastica essi sono soltanto degli studenti, e come tali non hanno diritto alla cioccolata (proprietà privata dei professori), devono subire le decisioni che calano dall'alto che si esplicano in un ignobile cartello sulla porta della sala insegnanti che recita: 'vietato l'ingresso agli alunni' (questo è il loro testo di legge) che suona proprio come quei cartelli 'non si affitta ai meridionali' o 'io qui non posso entrare' riferito agli animali ('dovete scegliere se educare bambini o addestrare animali' - Sébastien Faure).
Quando l'insegnante autoritaria li ha scoperti con la cioccolata in mano è iniziato il quarto grado, ma certamente i ragazzi non si sono lasciati intimorire. Ad ogni attacco violento dell'autorità, una splendida reazione (e lezione) da parte dei ragazzini, i quali le hanno sbattuto in faccia tutta l'ipocrisia di una legge che è puro arbitrio, che rivela solo ingiustizia, inganno, oppressione, volontà di reprimere chi vuole diritti e libertà. Aveste visto che piglio, soprattutto quando hanno voluto sapere il motivo per cui essi sono invece costretti a fare i servetti alla stessa insegnante che li manda nella stessa sala insegnanti a prenderle il caffé nella stessa macchinetta.
A fronte di cotanta reazione, l'autorità come si è protetta? Naturalmente alzando la voce, tentando di sopraffare acusticamente e non lasciando parlare, giustificando l'esistenza delle gerarchie, dicendo che l'anarchia è solo utopia, mostrando i muscoli, e soprattutto non sapendo proprio argomentare con i ragazzini. L'autorità si nasconde dietro scuse che i valorosi ragazzini definiscono banali e assurde. Poi le minacce. Allora sono intervenuto anche io: 'a questo punto noi insegnanti dovremmo smetterla di predicare ai ragazzi che siamo tutti uguali, che siamo tutti fratelli e sorelle, dobbiamo smetterla di predicare la pace nel mondo e la solidarietà, cosa vogliamo insegnare se poi i nostri stessi comportamenti contraddicono i propositi? Credi che i ragazzi siano scemi? Diciamo loro piuttosto la verità, che siamo tutti sudditi, diseguali, che qualcuno vale più di qualcun altro, che il bambino vale meno dell'adulto, che lo studente vale meno del docente' (applauso dei ragazzi). Come ha reagito l'autorità? Essendo quest'ultima sempre forte con i deboli e debole con i forti, l'insegnante fascista ha poi lavorato subdolamente di delazione, segnalando e spiegando a suo modo l'accaduto al 'borghesotto' seduto sul gradino più alto e melmoso della piramide. Da una parte lo Stato violento, dall'altra i 'miei' bravi ragazzi. E io con loro sempre.

La verifica sull'aggressività

I ragazzi si sono basati su un discorso che avevo fatto anche la settimana scorsa relativo ai motivi per cui il comportamento in classe (e nella vita) tenda all'aggressività, all'accusa reciproca, al dispetto... Ero curioso di conoscere la loro risposta scritta su un foglio di carta. I dispetti e gli attriti, anche nella società, nascono da un preciso marchio di disuguaglianza inciso dalle varie autorità nella coscienza degli individui. Chi si sente inferiore aggredisce, e non certo per necessità vitali come il cibo o la casa, ma per qualsiasi banalità, per cultura gerarchica imposta. La scuola è maestra suprema nell'insegnare la disuguaglianza, la gerarchia e la discriminazione sociale. I colleghi non se ne accorgono, ma non è colpa loro, non del tutto.
Mi ha sorpreso positivamente il fatto che in alcune verifiche il discorso sia stato argomentato utilizzando elementi trattati all'inizio dell'anno.
La verifica ha avuto una valenza creativa anche dal punto di vista grafico. Infatti, sulla base dei discorsi fatti intorno alle righe dei quaderni, ho invitato i ragazzi e le ragazze a usare il foglio e le penne in maniera molto libera e autonoma, non seguendo necessariamente le righe. Si sono divertiti tantissimo, e io pure.

Questa è stata la traccia:



E questo è l'elaborato di Marco, 11 anni. Sotto trascriverò la sua risposta, errori compresi (sentitevi bambini per intelligere le sue parole).


'Questo comportamento sociale non è un comportamento istintivo, infatti non è la Natura che voleva questa lite o questi atti aggressivi, è lo Stato che ordina con tutti la sua potenza di insegnare solo a essere comandati e a sentirsi uno superiore a un altro. Agli alunnni che, spinti dai genitori ad andare a scuola, obbedire, pretendere voti belli per rallegrarli, ma loro non sanno che mandando i propri figli a scuola, li rovinano solo perché a scuola gli alunni vengono comandati a bacchetta ad obbedire, ma se sbagliano vengono sgridati così tanto che non lo faranno più, poi, di conseguenza gli alunni non sapranno autogestirsi e, quando il cosiddetto 'capo' se ne va, gli allievi non sapranno come fare e cercheranno in ogni modo di trovarsi un altro 'capo'. Anche vengono dati i voti perché bisogna far cercare ai ragazzi di salire di classe sociale, quindi essi sono spinti a far dispetti o atti aggressivi a quelli superiori. Secondo me si può risolvere questa situazione se: tutti i cittadini siano d'accordo ad abbattere lo Stato e acquisendo lo stato anarchico per auto gestirsi'.

Le virgolette sulla parola 'capo' valgono più di cento verifiche. Altri elaborati qui sotto.

Elena ha scelto di ritagliare il foglio e di scrivere di sbieco.



A Marzia piacciono le onde, i cuori, e l'associazione tra i concetti di libertà e responsabilità.
Tommaso sembra ricreare i testi poetici degli avanguardisti surrealisti (in verità erano i surrealisti, o meglio anche loro, che guardavano al mondo libero e naturale dei bambini e del sogno).

E l'opera di Matteo ricorda il lavoro sulla spirale di quel gran genio anarchico di Marcel Duchamp (Dada)

'E non ho provato dolore'
L'autorità sì, e molta.


grazie, ragazzi, vi voglio bene anche io.

I suoni ignorati delle cose intorno

Se il mezzo di comunicazione privilegiato dagli esseri umani è quello fonetico-verbale*, la pratica dell'ascolto dovrebbe essere consequenziale. Certamente è così. Però nel mondo odierno quasi nessuno si accorge della gran varietà di suoni e rumori che il contesto produce; non ci accorgiamo, ad esempio, di ciò che accade sonoramente al di fuori di una stanza, a meno che non si tratti di suoni forti, fastidiosi o inconsueti, capaci di attrarre la nostra attenzione. La relazione verbale-uditiva si costruisce quasi sempre con chi ci è più direttamente vicino; e negli ormai rari momenti in cui siamo soli, con noi stessi, il nostro impegno nei confronti di altre faccende ci distoglie dall'ascolto dei suoni circostanti.
Saper ascoltare quel che succede intorno a noi ci relaziona con il fuori, amplifica il senso di attenzione verso tutte le cose, aumenta l'attitudine percettiva e allarga il suo orizzonte, allena l'attenzione nei confronti dei suoni più flebili, educa alla considerazione di quello che io definisco l'altro ipotetico, un altro sconosciuto, lontano, non considerato, escluso. Se questa è (purtroppo) una società in cui chi abbaia più forte prevale sull'altro, è opportuna un'educazione diversa, improntata sull'eguale considerazione di tutti da parte di tutti.
L'esercizio proposto è stato approvato dai ragazzi di una classe seconda (12 anni). Abbiamo iniziato stando in classe, poi siamo anche usciti in cortile. Sarebbe stato bello essere in mezzo alla natura, ma la legge dello Stato vieta di accompagnare gli alunni fuori dall'istituto se questi superano il numero di 15, e se l'insegnante è uno solo.

L'esercizio vero e proprio:
1) saper fuggire emotivamente dalla dimensione aula.
2) estendere il più possibile la propria capacità uditiva.
3) accogliere in sé ogni suono, anche il più debole.
4) annotare su un foglio il suono, descriverlo, decodificarlo, registrare l'emozione che suscita.

Molti ragazzi, in un'ora e mezza, hanno registrato oltre 50 suoni diversi, ma ho scelto di pubblicare l'esercizio di Oliver -ancorché 'scarno'- perché i suoni li ha anche visualizzati con dei disegnini. Qui allora è l'immagine che diventa didascalia (le volute rappresentano il vento).


Trascrivo l'esercizio di Oliver.
  1. Sento lo scricchiolìo delle sedie che mi dà la sensazione di noia.
  2. Sento le bidelle che parlano insieme ad altre persone che non riesco a capire chi sono e questo mi provoca curiosità.
  3. Sento il ticchettìo delle matite e questo mi rilassa perché mi fa ricordare il rumore della pioggia.
  4. Riesco appena a percepire il suono dei flauti in un'altra classe.
  5. Sento lo sbattere un po' violentemente una porta.
  6. Sento correre qualcuno.
  7. Sento parlare continuamente delle persone e mi disturbano.
  8. Sento il vento.
  9. Sento la macchina.
  10. Sento il rumore di una gazza che cinguetta fortemente.
  11. Sento altri uccellini e il loro cinguettìo è acuto.
  12. Sento abbaiare un cane.
  13. Sento dei clacson.

P.S. L'esercizio verrà riproposto periodicamente, con l'aggiunta di variazioni che implicano ogni volta maggiore abilità e sensibilità, fino a comporre vere poesie, quando l'emozione per uno o più suoni saprà emergere con maggiore presenza.

* Anche se il mezzo con cui comunichiamo è prevalentemente la parola, il mondo che ci circonda è zeppo di immagini (testi non verbali), le quali dovrebbero essere decodificate in ogni momento per non subirle passivamente. Manca però un'adeguata educazione all'immagine, al linguaggio visivo, alle regole biologiche di percezione.

Cinque minuti per me (posson bastare)

Venerdì scorso, durante i brevi minuti che passano tra un cambio di insegnante e l'altro, tra un'ora e l'altra, sono entrato in una classe 'scoperta' (momentanemente priva di insegnante) dove non conoscevo gli studenti, e quindi loro non conoscevano me. Dico la verità, non ho potuto fare a meno di approfittarne per parlare con loro un momento, e davvero i bambini capiscono talmente al volo il concetto di libertà/prigionia che son bastati credo neanche cinque minuti.

Entro, il silenzio totale.
'Chi sarà questo tizio? Un insegnante, certo, lo abbiamo visto nei corridoi, ma che vuole da noi? Perché è qui? C'è supplenza? Che dirà'? E' esattamente questo quello che pensano sempre i ragazzi davanti a un volto nuovo e 'adulto' in classe, ci siamo passati tutti. E gli sguardi sono sempre tra lo stupito e l'impaurito (sottolineo impaurito).

Vado alla cattedra, non dico niente, li guardo, vado avanti e indietro, mi blocco e li riguardo, riprendo a camminare in silenzio, per loro sto solo facendo la sentinella, anzi, il generale che passa in rassegna le truppe. Lo faccio apposta, faccio lo sgurado corrucciato, severo. Passa qualche secondo e il mio sguardo diventa anche sdegnoso. Finalmente parlo. Pronuncio solenne una massima di Diderot: 'nessun uomo ha ricevuto dalla natura il diritto di comandare gli altri'. Silenzio più totale, stanno ragionando su queste parole. Capisco che per degli undicenni la frase risulti ostica, intuisco ogni loro interrogativo. La ripeto ancora, poi più lentamente, scandisco le sillabe, dò peso alla parola 'nessun' e 'natura' (il mestiere del teatro mi aiuta sempre), utilizzo l'indice ammonitore. Ma insomma, guardatevi! E qui con le mani faccio il gesto, come per dire siete tutti inquadrati, allineati, inscatolati. Accentuo l'espressione sdegnosa. Loro capiscono al volo, qualcuno fa l'espressione rassegnata, come per dire 'eh sì, purtroppo'. Riprendo il bandolo della matassa e domando a uno: tu hai il diritto di comandare qualcun altro? La natura ti ha dato questo diritto? Qualche vostro professore ha per caso ricevuto dalla natura il diritto di farvi stare tutti così buonini e inquadrati, tutti seduti e in tre file perfette? E se qualcuno di voi, adesso, avesse voglia di alzarsi e andare dall'altra parte dell'aula? 'Non si può', mi dice quello del primo banco. Devi chiedere il permesso, vero? 'Sì', mi fa lui. Ma come -dico io- ma a casa tua chiedi il permesso per alzarti dalla sedia? 'No'. E a casa tua chiedi il permesso per bere? 'No'. E per andare in bagno? Ride, come per dire: 'che assurdità, certo che no'. E allora perché qui a scuola dovete tutti chiedere il permesso per fare tutto? Ho ripetuto: nessuno ha il diritto di comandare gli altri. 'Prof, ma perché non sono tutti come lei'?
Qui ha fatto ingresso la generalessa, la vicepreside che aveva lasciato scoperta la classe, e sono uscito da quell'aula.

La chiamano scuola dell'infanzia

Quanto si è ancorati alle proprie convinzioni, anche se si dimostra che queste sono false o superate? Vediamolo adesso.
Parlando con due colleghe delle elementari, siamo giunti a discutere di pedagogia. In verità il discorso l'avevo indirizzato io in quel settore, perché volevo sapere da loro quali pedagogisti avessero studiato all'Università (o al Liceo delle scienze sociali, ex socio-psico-pedagogico, ex magistrali), prima di approcciarsi al mondo dell'educazione infantile. Una delle due colleghe non ricordava neanche i nomi, mentre l'altra, freschissima di studi, mi ha citato solo la Montessori, ma senza addentrarsi nel merito della sua pedagogia. Alché ho fatto dei nomi di pedagogisti illustri per vedere se li avessero sentiti nominare da qualche parte. Ferrer? Illich? Faure? Bernardi? Niente da fare. Il vuoto. E che vuoto!
Primo elemento: conoscenza pedagogica generale, vicina allo zero. Secondo elemento: conoscenza dei pedagogisti più aderenti alle vere necessità del bambino e dell'essere umano, zero assoluto. Bisogna adesso tenere a mente questi due elementi durante la lettura di questo scritto.
L'attenzione si era nel frattempo spostata su uno dei cartelli appesi in classe, uno di quei cartelli dove ci sono disegnate le lettere dell'alfabeto. Questi cartelli, in quella scuola, hanno le lettere ben inserite dentro i binari, come in questa foto:

Esprimo allora un giudizio negativo sul fatto che vi siano dei binari, ne spiego anche il motivo (qui), dicendo anche che il mio giudizio negativo non appartiene a una mia velleità intellettuale, né a un mio pregiudizio, né a una mia congettura, ma che fa preciso riferimento a una visione più avanzata della pedagogia. Ora, io spero di ricordare ogni parola di quel che è uscito fuori dal nostro dialogo:
io: il bambino dovrebbe imparare a scrivere. Se togliamo le righe impara lo stesso e sviluppa la sua creatività anche nella grafia. Inoltre si sente più libero di esprimersi.
lei: ma è impossibile, i binari servono, sono indispensabili.
io: non credo che facendo scrivere su un foglio completamente bianco, questi bambini disegnino una 'z' al posto della 'g'.
lei: è vero, ma poi finisce che scrivono tutto storto e non si capisce bene, non ce la faccio a leggere.
io: allora il problema è solo tuo, non del bambino.
Non pensare, tu che leggi, che le maestre abbiano abbandonato la loro convinzione. Nell'ignoranza pedagogica che le contraddistingue (vedi sopra), le due maestre hanno continuato a sostenere che i binari sono necessari, sostanzialmente e unicamente perché questi aiutano le maestre a leggere. La chiamano scuola dell'infanzia.

P.S. Attendo con ansia e amore questi bambini alla scuola media. Non vedo l'ora.

Gustavo Esteva

'...A quel punto, sia mia figlia che noi genitori sapevamo che il problema non è la qualità della scuola, ma la scuola stessa. Per quanto riconfigurassimo l’aula, il programma di studio, ecc., la scuola rimaneva il problema e non la soluzione. Per quanto la nostra scuola fosse libera, per quanto fossero belli l’albero e il giardino che sostituivano l’aula, per quanto gli insegnanti fossero aperti e creativi, la nostra scuola era ancora una scuola. (Illich l’avrebbe messo in luce con estrema chiarezza nel suo Descolarizzare la società, come ho scoperto molti anni dopo)'.

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