Una citazione al giorno

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Data Rivoluzionaria

Marcello Bernardi, ancora sul CUORE


Dal libro raro 'Per una gioventù senza CUORE' di Marcello Bernardi, da cui ho recentemente estratto il capitolo nominato 'LA SCUOLA', traggo oggi per i lettori di questo blog - che ringrazio per le visite costanti - un altro capitolo, quello inserito nel mese di 'marzo' e che si occupa dell'Istituzione e dei due tipi di violenza sui quali, secondo me, nella nostra quotidianità, dovremmo porre particolare attenzione per non cadere nei pericolosi errori di valutazione, nei pregiudizi, nelle forme fideistiche nei riguardi della violenza legalizzata che perciò non viene neppure considerata tale dalla nostra società. Buona lettura.

L'ISTITUZIONE

Nel capitolo dedicato al tempestoso mese di marzo ci sono diversi fatti e fatterelli che inducono a meditare sulla violenza. Siamo alla sera del primo marzo quando cominciano i deplorevoli episodi: Franti rompe con una sassata il vetro d'una finestra ed è denunciato da Stardi. Tre giorni dopo Franti cerca di accoppare Stardi. Poi si rifà vivo il padre di Crossi, il prigioniero numero 78, che aveva ammazzato il suo spietato datore di lavoro. Alla metà del mese lo stesso Enrico, solitamente pacifico e inoffensivo, insulta il compagno Coretti e per poco non lo picchia con la riga. Cosa fra le più orrende.
Dice infatti al figlio l'ingegnere Bottini: 'Non dovevi alzare la riga sopra un compagno migliore di te, sopra il figliolo di un soldato!'. Il buon padre lo riconosce senza esitazioni: i figliuoli dei soldati sono in genere migliori dei figliuoli degli ingegneri. I soldati, che hanno la funzione di fare la guerra e cioè di uccidere altri uomini chiamati 'nemici', costituiscono una categoria particolarmente benemerita. L'alzar la riga sul figliolo di un falegname o di un contadino, a quanto dice l'ingegner Bottini, sarebbe stato un atto meno indegno. Il soldato, infatti, può anche assassinare la gente, ma appartiene all'Istituzione, il falegname e il contadino non vi appartengono, quindi contano un po' meno.
Per concludere la serie dei violenti ecco infine il protagonista del racconto mensile, tale Ferruccio di anni 13, che impiega il suo tempo a far la sassaiola e a venire alle mani coi compagni, e poi la livida faccia del giovane Vito Mozzoni, ladro e assassino.
Tutti questi casi hanno una caratteristica comune: la violenza è sempre strettamente personale, privata, esercitata a titolo individuale per malvagità, per vendetta, per collera, per monelleria o per rapina. E la violenza individuale, diversamente da quella governativa, non è tollerata nel piccolo roseo universo del CUORE. La disapprovazione per i personaggi violenti è chiaramente espressa in più punti. Persino il povero ebanista padre di Crossi, che pure aveva degli ottimi motivi per dare una lezione al padrone 'che da un pezzo lo perseguitava', che aveva ucciso involontariamente, che 'ha espiato nobilmente il suo delitto' con sei anni di galera, e che è un uomo di cuore, persino lui viene assolto con qualche riserva. Merita la nostra compassione, il nostro perdono, e anche la nostra stima, ma resta pur sempre un ex-carcerato giustamente perseguitato dal rimorso. Un rimorso che traspare dal suo 'viso smorto e malinconico'. Se la faccia di costui fosse stata vivace e allegra l'autore ne sarebbe rimasto scandalizzato e la sua pietà sarebbe diminuita di molto. Forse sarebbe scomparsa del tutto. Chi commette violenza deve espiare con un perenne pentimento, oppure con la vita, come fa il giovane Ferruccio nel racconto 'Sangue romagnolo'.
Certamente la violenza è condannabile, ma si ha l'impressione che l'autore sia impegnatissimo nel disapprovare la violenza privata, e non lo sia affatto, come si diceva, nel criticare la violenza pubblica. Al contrario, in varie occasioni gli educatori di Enrico si valgono di espressioni entusiastiche ed esaltanti nel trattare il tema della violenza istituzionale. Ce ne sarà un fulgido esempio in giugno, di questa passione per l'assassinio di stato. Una frasetta, ma molto eloquente. Questa volta è proprio Enrico che scrive, evidentemente ormai ammaestrato a dovere. Scrive della sfilata militare: 'E poi venne su lenta, grave, bella nella sua apparenza faticosa e rude, coi suoi grandi soldati, coi suoi muli potenti, l'artiglieria di montagna, che porta lo sgomento e la morte fin dove sale il piede dell'uomo'. Magnifico. I luminosi progressi degli eserciti consentono ormai di portare lo sgomento e la morte dappertutto, anche in cima alle montagne, fin dove sale il piede dell'uomo. Oltre che sui mari. Consentiranno fra qualche anno di portare sgomento e morte anche nel cielo, e fra qualche decennio nello spazio, coi satelliti atomici e i missili intercontinentali. Ma, ripetiamolo, qui si tratta di violenza dell'Istituzione, dello Stato, e perciò buona. Quella cattiva appartiene all'individuo.
Ai violenti individuali irrecuperabili, come Franti e Vito Mozzoni, il CUORE riserva una condanna senza appello; ai violenti provvisori, recuperabili, come il padre di Crossi, o Enrico, o Ferruccio, si assegna la penitenza del rimorso, del rimprovero paterno e della coltellata nella schiena; ai violenti di stato si elargiscono lodi e celebrazioni. In questo capitolo le lodi toccano al conte di Cavour. A un tale succulento esempio di violenza nazionale il padre di Enrico dedica la sua lettera del 29 marzo. '...è lui' scrive l'ingegner Bottini, 'che mandò l'esercito piemontese in Crimea a rialzare la nostra gloria militare... è lui che fece calare dalle Alpi centocinquantamila Francesi a cacciar gli Austriaci dalla Lombardia...', lui che, persino morendo, 'domandava dove fossero i corpi dell'esercito e i generali'. La violenza di Franti, che tira sassate alle finestre e si accapiglia coi compagni, è raccapricciante; quella di Cavour, che manda al massacro migliaia di uomini, è aureolata e trionfale. Franti e Mozzoni ci vengono presentati con facce bieche e coltelli in pugno, Cavour curvo sul lavoro e occupatissimo a salvare l'Italia. Franti e Mozzoni, che impiegano la violenza personale, sono interamente cattivi; Cavour, che impiega la violenza dello stato, è interamente buono. Franti è il criminale, Cavour il Salvatore della Patria.
Ma se qualcuno esprimesse il dubbio che un Salvatore della Patria, almeno in certi casi, altro non sia che un criminale con un esercito a disposizione, quel qualcuno andrebbe difilato in galera. A ben pensarci, l'atteggiamento di Franti e quello di Cavour di fronte al mondo hanno qualcosa in comune: il primo sfida la scuola, il secondo sfida l'Europa. E tutti e due ricorrono alla violenza: Franti lanciando una pietra con le proprie mani, Cavour spargendo la morte con le mani altrui. Però Franti viene scacciato per sempre dalla scuola e dalla società, mentre Cavour viene distribuito per tutto il paese sotto forma di statua. Una statua alla quale, secondo l'ingegner Bottini, dobbiamo dir 'Gloria!' in cuor nostro.

La forza è solo nelle braccia

La scuola è stata progettata anche per distruggere l'autodeterminazione delle persone. Negarlo è da stolti, visto il circostante belante. Certo qualcuno, grazie a chissà quale alchimia esistenziale, riesce ancora a salvarsi dal tritacarne scolastico, ma sono troppo pochi al mondo, e sono anche braccati da tutti gli altri. Infatti la persona autodeterminata viene considerata eretica, colpevole, pericolosa, e chissà cos'altro perché critica questa assurda normalità, dimostrando quanto sia dannosa per tutti noi, e inoltre non vuole ordini, non cerca padroni, non vuole governi, li trova offensivi per la propria dignità, sa cosa le serve per poter vivere pienamente, ama la libertà propria e degli altri, affronta eventuali conflitti ponendo le questioni sulla base del buon senso, non sui codici scritti o su quel che dice il capo, anche perché, se fosse per queste poche 'persone pericolose', di capi non ne esisterebbero. Vogliamo sputarci sopra? Perciò la scuola, strumento infallibile e antico del potere, distrugge questa naturale autodeterminazione degli esseri umani, insegna ai bambini e ai ragazzi ad obbedire, e a credere per giunta che sia meritevole di lode farlo. 
Gli adulti già scolarizzati pensano perciò che l'obbedienza sia una virtù. Quello che essi hanno ricevuto è un addestramento culturale di tipo militare e fascista, ma generalmente senza che essi se ne siano mai resi conto, perché a scuola si parla di democrazia, di diritti, di accoglienza, di questo e di quello, tutte belle parole, ma che sono appunto soltanto parole, vuota e stucchevole retorica, ipocrisia pura, nei fatti e attraverso i fatti la scuola fascistizza il 99% delle persone, e anche di più, a prescindere da quanto bravi * siano i docenti o da quanto allegra e luminosa e accogliente sia la struttura architettonica.
Se, attraverso la scuola, lo Stato non provvedesse a distruggere l'autodeterminazione delle persone, non soltanto l'atto di obbedire sarebbe semmai un innocuo fatto personale, un optional discrezionale che non coinvolge tutta la comunità, perturbandola irrimediabilmente, ma non ci sarebbe il potere in quanto autorità dominante, in quanto sfruttamento dell'uomo sull'uomo, violenza strutturale e legalizzata. Perché il vero potere non è mai la sola testa in cima. Il vero potere si esprime per mezzo del 'più giù', è l'insieme delle braccia servili, tutte quelle innumerevoli braccia che eseguono gli ordini, che obbediscono, che non fiatano e aspirano a un premio, che producono e consumano, che rispettano le autorità andando persino contro i propri interessi, esattamente come imparano a fare i bambini impauriti e rinchiusi per anni dentro una classe-cella. Devono imparare a farlo, altrimenti... niente Dominio, niente società borghese, niente violenza istituzionale, niente fascismo, niente arricchimento di pochi ai danni dei molti, niente società 'civile'... 
Facciamola finita con l'educazione, diceva il pedagogista John Holt, lui tra gli altri, e lo ripeto anche io! Lo ripeto però non ai pochi 'pericolosi', ma a quello sterminato e devoto esercito di braccia obbedienti che, purtroppo, proprio per colpa della scuola, credono ancora che quest'ultima sia il luogo deputato all'emancipazione della società. Falso, evidentemente. A questa moltitudine di paurosi ricattati con la divisa nel cervello che difende il potere anche inconsapevolmente, magari dicendo poi 'ho solo eseguito degli ordini' (abbiamo già tristemente udito queste parole altrove, vero?) darei adesso una 'bruttissima notizia': il potere è conservatore in sé; ci si emancipa soltanto disobbedendogli, cominciando magari a disobbedire all'obbligo scolastico, che è diventato un obbligo non certo per inseguire il sogno di una emancipazione collettiva. Chi detiene il potere non ha mai di questi sogni, sarebbero sogni suicidi.

* Ci sarebbe da scrivere molto sulla vulgata che dice spesso 'quel docente è bravo' (il fatto che lo si dica spesso è già un segno per sospettare della faccenda, visto il pessimo risultato che possiamo constatare intorno a noi). Che cosa vuol dire, poi, essere 'bravi docenti'? Magari ne parlerò. In ogni caso è sufficiente scavare un po' nella questione per scoprire che per la nostra società 'essere bravi docenti' significa essere abili nell'addestrare senza farsene accorgere, o abili nel far passare con simpatia e buona attenzione i contenuti decisi dal sistema, o ancora abili nel ridurre la classe al silenzio e costringerla all'immobilità fisica; insomma, essere 'bravi docenti' significa essere abili nel far accettare col sorriso tutti gli ordini dati e a farseli eseguire con altrettanta gioia da bambini e ragazzi. Obbedire e produrre con gioia, essere schiavi docili e grati, acquiescenti, questo è il vero sogno di tutti i padroni e del loro amato Stato.

Arte?

- Un modo per esprimersi.
- Un modo per comunicare.
- Un modo per aumentare la fantasia.
- Un modo per fare bello il mondo.
- Un modo per capire il passato.
- Un modo per capire il futuro.
- E il presente? - Pure! Aahhh, ok.
- Un modo per inventare le cose.
Avete letto le cose che sembrano rispondere meglio alla domanda 'che cos'è l'arte?', secondo l'opinione di alcuni undicenni (classe prima media), incontrati oggi per la prima volta.

Gustavo Esteva

'...A quel punto, sia mia figlia che noi genitori sapevamo che il problema non è la qualità della scuola, ma la scuola stessa. Per quanto riconfigurassimo l’aula, il programma di studio, ecc., la scuola rimaneva il problema e non la soluzione. Per quanto la nostra scuola fosse libera, per quanto fossero belli l’albero e il giardino che sostituivano l’aula, per quanto gli insegnanti fossero aperti e creativi, la nostra scuola era ancora una scuola. (Illich l’avrebbe messo in luce con estrema chiarezza nel suo Descolarizzare la società, come ho scoperto molti anni dopo)'.

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