La scuola sottrae del tempo ai ragazzi. Tempo per vivere. Vivere vuol dire tante cose, questo è certo, ma forse vuol dire soprattutto realizzarsi in quanto esseri umani, non in quanto ruoli sociali o strumenti di produzione. Realizzarsi in quanto esseri umani significa secondo me anzitutto conoscersi senza disconoscersi, cioè senza tradire le proprie attitudini, le proprie esigenze, le proprie aspettative; significa non essere altro da sé, significa stare il più vicino possibile al proprio modo di sentirsi e di volersi.
Se però un individuo si lascia gestire emotivamente dai dogmi imposti da una cultura, il suo sentire e le sue emozioni saranno rivolte verso la difesa di quei dogmi. In altre parole, quella persona si identificherà nelle credenze provenienti dall'esterno, laiche o religiose che siano, e sarà facile preda dei pregiudizi, con tutti i conflitti sociali che ne derivano. Ma se una persona non si lascia condizionare dagli elementi che provengono dall'esterno, che sappiamo essere elementi depositati espressamente nel canestro della cultura-di-massa in una precisa epoca storica, allora quella persona non avrà nient'altro a cui pensare se non a se stesso, alla sua integrità morale, allo sviluppo del suo pensiero critco e autonomo, alla sua unicità. In questo modo si recupera e si sviluppa anche l'empatia, quel particolare modo di sentire ormai perduto che è totalmente in opposizione al modo attuale di non sentire più gli altri. Là dove c'è competizione strutturale, istituzionale, culturale, si uccide l'empatia. Difficile da recuperare quando si diventa adulti scolarizzati e adattati.
La scuola sottrae del tempo, costruisce dogmi di vario genere, e insegna a perpetuarli. Uno di questi dogmi è quello che ci fa credere che la scuola sia necessaria. E' un dogma molto duro a morire, nonostante le evidenze storiche dimostrino che questo crogiuolo istituzionale in cui viene fusa la sostanza di cui è fatta la nostra società soddisfa soltanto le esigenze di quelli che progettano e riprogettano la macchina capitalista della produzione. Una produzione continua anche di schiavi produttori. Ma l'evidenza, si sa, spesso si fa finta di non vederla, soprattutto quando ci scopre i nervi e svela le colpevoli e dolorosissime complicità di ognuno.
Secondo il mio punto di vista, togliere agli altri il tempo vitale è un autentico delitto, qualunque sia la motivazione addotta che, non a caso, proviene sempre dall'esterno, da un alto sempre arbitrario. Nulla vale più della propria vita e della propria realizzazione. Non possono esistere motivi validi per inibire o vietare la realizzazione di se stessi, poiché ognuno di noi, per noi stessi, è il bene più supremo. Nasciamo individui, ma poi purtroppo veniamo traformati in ruoli. Questo è uno dei vari compiti assegnati alla scuola: fabbricare ruoli. Perciò molti pensano che la realizzazione individuale coincida con quella professionale. Non è così, non può essere così. L'individuo è qualcosa d'altro, qualcosa che da troppo tempo è disatteso, credo ormai sconosciuto, perché ucciso profondamente dalle convenzioni sociali, dalle classificazioni, dalle sovrastrutture culturali imposte.
La distinzione tra individuo e ruolo sociale è nettissima. Quando per esempio io penso a me stesso come ruolo, non posso non disgiungere questo ruolo dal mio essere individuo. Ma proprio perché so distinguere le due cose, io riesco a soffocare il ruolo per adoprarmi invece in ciò che mi riassume come identità morale individuale. Perciò sono un docente libertario. Questo significa che mi sento fondamentalmente un individuo, e come tale sento l'esigenza di confrontarmi a scuola con altri individui intorno a me, e non con altri ruoli (studenti - bambini - inferiori). In questo rapporto tra individui - e non può che essere paritario - nessuno può avere il diritto di togliere del tempo a qualcun altro, se questo qualcun altro non è d'accordo. E come ben si sa, in una scuola tradizionale i ragazzi devono invece fare ed essere ciò che viene ordinato loro di fare e di essere, anche se essi non sono d'accordo.
Così in una scuola istituzionale la mia individualità cozza sempre contro il ruolo. Pongo rimedio, questo è vero, lo faccio in mille modi, ma non è facile in un ambiente in sé violento, autoritario, formalizzato e formalizzante, inventato apposta per fare degli individui una massa culturalmente uniformata. Ma il più delle volte ci riesco. Un piccolo esempio, davvero piccolo rispetto ad altri, è di questa mattina. Mentre si discuteva intorno all'importanza dell'arte nella società, una discussione valida anche per una prossima autovalutazione, una ragazzina a testa china sul banco non smetteva di scrivere. La cosa naturalmente mi ha incuriosito. Quando si è accorta che la stavo osservando mi ha detto che stava scrivendo un libro. Le ho chiesto se era un compito assegnato da qualche collega, e lei mi ha risposto di no: stava creando qualcosa di suo. Se avessi dato retta al ruolo anziché all'individuo, l'avrei quantomeno rimproverata, se non addirittura punita per essersi distratta con altre cose. Ma essendo io un essere umano sapevo che quella ragazza che mi stava parlando con gli occhi pieni di orgoglio stava recuperando il suo tempo per fare ciò che riteneva necessario ai fini della propria realizzazione personale. Una realizzazione momentanea, forse, ma perché inibirla? Le ho chiesto solo l'argomento del suo libro, non l'ho certo rimproverata. Per inciso, in qualità di educatore anarchico sto sempre attento alle attitudini personali dei ragazzi, e le rispetto, cercando quando richiesto di dare una mano per farle emergere. Perciò posso anche essere accusato di non svolgere il mio ruolo di caporale scolastico, ma proprio per questo mi ritengo moralmente soddisfatto e orgoglioso di essere un individuo tra altri individui
P.S.
Il testo che avete appena letto non è estratto dal libro di Max Stirner. La foto a corredo è un supporto visivo-concettuale al senso del mio post. Scrivo questo perché pare che alcune persone su facebook mi abbiano scambiato per Stirner. Troppo buoni, li ringrazio, ma credo che chi abbia letto Stirner si sia accorto della enorme differenza, quantomeno di stile, tra me e il filosofo tedesco.
P.S.
Il testo che avete appena letto non è estratto dal libro di Max Stirner. La foto a corredo è un supporto visivo-concettuale al senso del mio post. Scrivo questo perché pare che alcune persone su facebook mi abbiano scambiato per Stirner. Troppo buoni, li ringrazio, ma credo che chi abbia letto Stirner si sia accorto della enorme differenza, quantomeno di stile, tra me e il filosofo tedesco.