Ho visto gabbie d'allevamento destinate a docili pennuti. Si tratta di contenzione coatta, di coercizione non voluta, di una situazione innaturale dove tutti gli individui (tutti) soffrono e reagiscono di conseguenza. Se in queste gabbie costrittive alcuni pennuti, per l'ovvio disagio, cominciano ad agitarsi e a beccarsi tra di loro, fino a sanguinarne, la colpa non è dell'animale sofferente che si agita in cerca di spazio. Dobbiamo andare a monte del problema se vogliamo eliminarlo.
Eliminare il problema non vuol dire limare i becchi degli animali, e nemmeno pretendere che altri pennuti, ugualmente reclusi e feriti, feriscano a loro volta chi si agita al fine di insegnare a sopportare la sofferenza in perfetto silenzio e tenace inerzia. Ma quando tutti i pennuti, fin da quando sono teneri pulcini, vengono addestrati a pensare e credere che stare in quelle gabbie è una condizione naturale e giusta, doverosa e perfino liberatrice, le soluzioni che essi troveranno per i loro problemi non potranno che peggiorare la loro condizione e far aumentare il loro grado di violenza reattiva. Perché la violenza reattiva, visibile e diretta, come ha lungamente analizzato Johan Galtung, ha origine dalla violenza strutturale (la gabbia) e dalla violenza culturale (la convinzione dogmatica che la gabbia sia una cosa giusta). La violenza che esplode presso ogni sofferente è un effetto, la logica conseguenza di una condizione di coercizione innaturale subìta.
Agire sugli effetti non elimina mai la causa, acuisce soltanto il problema. Sarà un bel giorno quello in cui i pennuti cominceranno a dire che la vera violenza non è nella gabbia, ma della gabbia!
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