Il dramma della scuola segue anche la strada tracciata da una sorta di 'noli me tangere' delle maestre, dei professori, di tutti gli adulti che gravitano intorno alle vite dei bambini, modificandole a loro piacimento. Inutile star lì a ricordare a questi adulti che i bambini non sono una proprietà privata, che non sono pezzi di legno da fresare, oggetti da adattare all'ambiente, strumenti per l'ambizione personale... è inutile perché il noli me tangere piomberebbe comunque e in tutti i modi, come un'autoassoluzione inesorabile e insindacabile avallata anche da tutta la società. Purtroppo però i fatti dimostrano che, nei confronti dei bambini, l'adulto ha quasi sempre torto, anche quando egli crede davvero di fare del bene. Quella dell'adulto sarà a suo dire anche una buona fede, ma è una fede purtroppo criminale, soprattutto quando la criminalità nascosta delle intenzioni pensate 'in buona fede' gliela si fa notare ed egli continua lo stesso ad agire come ha sempre fatto, cioè in direzione ostinatissima e non contraria.
Quante volte questi adulti prendono decisioni che riguardano i bambini nella convinzione assoluta di fare la cosa giusta? (giusta per chi?). E quante volte possiamo poi riscontrare che quelle decisioni hanno prodotto il contrario di ciò che, in buona fede, si prefiggevano? Non ho mai incontrato uno o una docente che, di fronte allo sfacelo di cui è complice, non abbia detto 'ma io sono diverso/a dai miei colleghi', cercando così di discolparsi. Credo che vi siano eccezioni, certo, ma in questa società l'eccezione, oltre che confermare la regola, si paga a carissimo prezzo, e io ne so qualcosa, perché la disobbedienza è punita sia dalla legge, sia dalla società irreggimentata. Non so quanti siano disposti a pagare personalmente le conseguenze del loro dichiararsi 'eccezioni'. Non voglio far polemiche, ma a giudicare dal numero delle volte in cui mi sono sentito dire 'ma io sono diverso dagli altri', dovrei trovarmi di fronte a una società di libertari disobbedienti, a una scuola italiana straripante di pedagogia libertaria, ma ho occhi abbastanza attenti per vedere che non è così, purtroppo. Per quanto mi riguarda, anche di fronte ai ragazzi e alle ragazze, non ho mai nascosto il mio continuo mettermi in discussione, perlustrando le mie convinzioni, accorgendomi a volte che erano sbagliate e autoindirizzandomi di conseguenza verso un continuo miglioramento. Non ho ancora finito e so che non finirò mai, ma questo è il senso della mia vita. Secondo me, la vita di un individuo è, o dovrebbe essere, anche un continuo fluire dinamico di posizioni di coscienza, al fine di migliorare la rotta morale personale.
Ma al di là delle rarissime eccezioni, l'adulto scolarizzato, sclerotizzato, normalizzato, ha la particolarità di essere talmente presuntuoso da non ammettere mai a se stesso e a gli altri che la colpa di un risultato diverso da quello da lui auspicato sia la sua: di fronte al suo fallimento in qualità di educatore, il padagogo tende a cercare fuori di sé qualcosa o qualcuno da incolpare, trovandolo purtroppo immancabilmente nel bambino innocente che non sa difendersi, e che sicuramente - pensa l'adulto - non ha saputo o voluto imparare la sua lezione moralizzante. A quel punto il pedagogo inasprirà la sua lezione autoritaria, ottenendo ovviamente un risultato peggiore, poiché, o il bambino si ribellerà (motivo per cui, secondo l'adulto, va ulteriormente represso e sedato), o il piccolo si deformerà subito in un'acquiescenza passiva e devota, obbedendo agli ordini superiori, cioè autoannullandosi come individuo autodeterminato, ed è proprio questo che renderà felice l'adulto educatore, e più in generale la società di passivi adattati, ma soprattutto gli ingegneri del sistema che hanno deciso tutto questo, esattamente così com'è, e come questo tutto si deve realizzare.
Ma perché l'adulto, ammesso e non concesso che debba essere lui a decidere per il bambino, è sempre così sicuro delle sue decisioni? Ci sono casi in cui l'adulto decide in base alla propria frustrazione, o ai propri capricci, oppure perché ha constatato il suo fallimento in società (ma fallire in quanto ingranaggio dovrebbe significare non essersi adattati al sistema, e quindi dovrebbe essere motivo di orgoglio, non di pena), o semplicemente perché vuole 'migliorare' il bambino (purtroppo non c'è mai fine a questa presunzione di miglioramento), dove migliorare vuol dire far aderire il bambino in maniera più precisa ai dispositivi del Dominio. In molti altri casi, l'adulto decide sulla base di una deontologia virtuale, secondo un codice morale che gli è piovuto dall'alto e che ha imparato ad assorbire fin da bambino in maniera automatica senza interporre alcuna critica costruttiva. In tutti i casi, le decisioni calate dall'alto sul bambino risultano per l'adulto sempre insindacabili e vengono imposte in nome del sempiterno e presuntuosissimo 'lo faccio per il tuo bene'. Poi quel bene non si rivela davvero tale (a meno che non riguardi una reale incolumità fisica), anche perché procede da una esclusiva volontà dell'adulto in perenne ricerca di soddisfazioni personali, frustrato com'è. Ma io vorrei fare un esempio concreto, di quelli a cui si deve guardare in faccia con coraggio ed umiltà.
In un articolo precedente descrivevo alcune nuove disposizioni calate dall'alto che riguardano la ricreazione nella scuola dove insegno. I lettori di questo blog ricorderanno queste disposizioni relative allo scaglionamento obbligatorio degli studenti durante la ricreazione. Quando la cupola degli educatori aveva deciso di mandare in bagno i bambini divisi per classi (nessuno studente di una classe inferiore può incontrare gli studenti delle classi superiori), lo aveva fatto in forza di una sua presunta e assoluta convinzione di fare giusto e bene. E questi adulti insegnanti erano - e purtroppo sono ancora - convintissimi della bontà di questa loro decisione, talmente convinti che non importa nulla se la delibera contravviene alle loro stesse belle parole in merito alla socializzazione ('la nostra scuola promuove la socializzazione', si dice e si scrive di solito sui depliants di propaganda), una socializzazione a questo punto del tutto supposta e falsa più di quanto non avvenga normalmente, laddove nelle altre scuole i ragazzi si incontrano tutti quanti durante la ricreazione, retaggio dell'ora d'aria, che a scuola non è neanche un'ora. Il risultato di questa decisione presa 'a fin di bene per evitare atti di bullismo' - dissero e dicono ancora - lo avevo già scritto: una ragazzina di primo anno, trovatasi in bagno nei cinque minuti riservati alle seconde classi, è stata offesa da qualcuno superiore a lei che stava lì in bagno, in barba alla socializzazione, alla 'prevenzione del bullismo', alla solidarietà, alla fratellanza, alla pace, e a tutte le belle parole che la scuola stessa in genere proferisce, e che sanno di presa in giro. Ciò che viene imparato a scuola si riversa nella società (e viceversa attraverso gli adulti scolarizzati). Eppure gli adulti sono sempre convinti di fare del bene, il bene dei bambini, ed è questo che non deve mai sfuggire da questo discorso, e perciò lo ripeto. Ma cosa ne sanno gli adulti di cosa è bene per gli altri? E soprattutto, con quale diritto possono ancora gli adulti decidere sui bambini, credendo di far loro del bene (in realtà lo vogliono fare a se stessi), se questi adulti dimostrano solo di essere un malevolo prodotto pedagogico, a loro volta pedagoghi in questa società autoritaria e ingiusta? Cosa dovremmo aspettarci da questo circolo vizioso?
Dobbiamo dirlo con franchezza: gli adulti scolarizzati sono sostanzialmente degli adattati che insegnano ad adattarsi. Per adattati intendo persone che hanno anche imparato benissimo ad usare gli strumenti autoritari, e solo quelli (non conoscendone altri), per portarli a giudicare e sentenziare sulla base di convinzioni che sono autoritarie già in origine. Questi strumenti anche culturali, tra i quali figura l'idea del bambino come proprietà privata, essendo strumenti autoritari, non possono certo configurarsi come strumenti che volgono la società ad un vero cambiamento, anche se nel momento di deciderne l'uso tutti li pensano in buona fede come eccellenti a questo scopo. In sostanza, questa società si fonda sulla convinzione che ogni azione, ogni decisione adulta moralizzatrice sia giusta a priori, a prescindere dalla direzione in cui vanno queste decisioni e dai risultati deleteri ottenuti e visibili ormai anche sul piano storico, dove allora la colpa sarà data a qualcos'altro, magari vigliaccamente proprio al bambino 'cattivo', ovvero all'anello più debole e indifeso della società sedicente umana. E di fronte al bambino che noi adulti pensiamo cattivo (quando invece egli vuole soltanto vivere la sua vita in pace e concretizzare il proprio concetto di bene e di vita), un altro esempio di decisione presa arbitrariamente dall'adulto e creduta giusta, ma con risultati nefasti, è quella che prevede sempre una qualche forma di punizione o di 'correzione', con le buone o con le cattive, come il vietare il gioco al bambino o il supplicare la maestra di essere ancora più severa, o ancora più dolcemente subdola con le sue formule di ricatto adulatorio. Come si può combattere l'autoritarismo con l'autoritarismo? Sarebbe come credere che la pace tra i popoli si realizzi per mezzo di confini artificiali, nemici costruiti all'occorrenza, missili e soldati. Ma questo tipo di società ci crede davvero, purtroppo, fondata com'è su una cultura disciplinante di tipo militare assorbita obbligatoriamente prima a scuola, poi nella società già disciplinata.
L'adulto saprebbe forse pensare a qualcosa di diverso dallo strumento autoritario e legalitario (ad esempio il ricatto di un premio o di una ricompensa) che ha imparato a scuola e in società? No, come infatti non sa pensare ormai neanche a una libertà che non sia soggetta a qualche tipo di controllo esterno da sé, e che perciò non può mai essere libertà. L'adulto è convintissimo che le risoluzioni che egli prende in merito alla vita dei bambini siano le uniche possibili, le più doverose e giuste, quelle che egli motiva di solito con un desolante e indicativo 'lo fanno tutti, quindi è giusto'. Il sol pensiero di dare fiducia al bambino destabilizza l'adulto adattato, quando non lo manda in bestia. Pensare al bambino come una persona con tutti i suoi diritti (di scelta, di decisione, di autodeterminazione, di errore...) è qualcosa di inarrivabile per l'adulto scolarizzato e disciplinato, qualcosa di inconcepibile. L'idea di una propria libertà, e di vederla anche negli altri, terrorizza l'adulto adattato alla gabbia sociale, gli fa credere che l'umanità intera si disintegri per 'troppa libertà' (la libertà è ormai pensata a priori come qualcosa di distruttivo), e non si accorge invece che la disintegrazione di tutto, persino dell'ambiente, sta avvenendo sotto i suoi occhi proprio a causa della mancanza di libertà, del continuo controllo sugli individui da parte di altri individui, una sorveglianza che egli benedice, vuole, perpetua e giustifica anche con le sue decisioni prese 'a fin di bene', di marca autoritaria e giammai libertaria, quand'anche conoscesse il significato profondo e onesto del termine 'libertaria'.
Così sul bambino grava sempre una colpa che non ha, quella di essere un bambino, un organismo biologico considerato inferiore all'adulto, cioè un essere 'poco serio', di intelletto informe, privo di un progetto autonomo di vita, semovente a nove mesi circa, da moralizzare, addestrare e plasmare secondo la madre-forma stabilita da una logica di Domino che si riflette sulla società attuale, la società mercantile degli adulti, i quali si considerano nel giusto rispetto ai bambini e deliberano al posto loro utilizzando gli strumenti del sistema, la cultura del sistema, che non può far altro che riprodurre il sistema stesso. Gradirei ripetere: le eccezioni, essendo tali, non fanno la differenza in fatto di costruzione sociale, purtroppo, però la fanno in termini di morale, quella di coloro che eventualmente ne sanno cogliere il valore intrinseco, e di chi sa di essere un'eccezione, un disobbediente per una sua personale questione di dignità, al di là delle conseguenze punitive a cui è destinato in forza di una legge che non riconosce come giusta, e che non lo sostituisce in quanto persona autonoma.
Che fare? si chiedono sicuramente anche alcuni lettori di questo blog. Ritengo questa domanda quantomeno priva di una reale giustificazione, dal momento che proprio questo blog riassume e - oserei dire - ostenta una pratica alternativa, soluzioni diverse, che vanno tutte in direzione opposta alla consuetudine autoritaria. Ma è proprio questo agire in opposizione al consueto che credo faccia paura ai molti. La libertà oggi fa ancora più paura di ieri, spinge le persone a prendersi delle responsabilità che non vogliono e non sanno più prendersi, le spinge a scoprirsi complici del sistema, a vedersi produttori e ri-produttori di questo tipo di società ingiusta fatta di chiavi che creano padroni e piramidi. La libertà, l'idea stessa di una vera libertà, esorta l'adattato a non abbandonare il suo affetto per l'assistenzialismo di Stato che non assiste, ma sfrutta e violenta, lo fa aggrappare con più vigore alle convenzioni abituali, ai pregiudizi, come se queste convenzioni e questi pregiudizi fossero la sua coperta di Linus che però non scalda, non consola, ma corrode, consuma la sua vita e quella degli altri. E allora, dietro la domanda 'che fare?' credo si nasconda un universo di diligente e ferrea volontà di rimanere dove si è, di attaccarsi semmai febbrilmente a qualcosa che ogni tanto sembra cambiamento ma che non può esserlo (riforme) fintanto che del male ne rimane la sua radice profonda, la sostanza, la cultura generalizzata e generalizzante. Questa voglia di stare dove si è, a mio giudizio, emerge perciò con forza quando l'alternativa proposta è davvero libertaria, anarchica, e allora questa alternativa fa paura (anche se inevitabilmente attrae per il suo valore umano e morale) a prescindere dai risultati, o proprio a causa di questi, che anche questo blog e la mia pratica quotidiana o quella di altri educatori libertari dimostrano in maniera eclatante. E quando parlo di risultati non intendo un obiettivo che viene raggiunto per mezzo di un programma calato dall'alto, misurabile, ma di una evidenza il cui merito sta tutto nella natura degli individui che, facendo in modo che essi la seguano liberamente (ed è questo il mio unico compito), si autoeducano nel segno dell'innato senso di collaborazione e della curiosità spontanea.
Per quanto mi riguarda, vorrei fare più di quel che già faccio, ma non dimentichiamo che io agisco in una scuola di Stato e per sole due ore alla settimana ogni classe, cioè in una struttura carceraria dove quel che faccio, per come lo faccio, subisce attacchi ferocissimi, attacchi diretti anche alla mia persona. Ma se noi guardiamo alle esperienze di Sébastien Faure, Lev Tolstoj, Francisco Ferrer, Paulo Freire, Alexandre Neill, solo per citare alcuni pedagogisti anarchici, fino ad arrivare alle odierne scuole libertarie in tutto il mondo, chiunque potrà constatare in che modo l'essere umano, per mezzo di esse o facendo in modo che la scuola sia la vita stessa, possa emergere in tutta la sua unicità e autodeterminazione, in tutta la sua chiarezza di individualità cosciente e creativa, ben lungi dal voler uccidere se stesso sotto il peso di un adattamento volontario, e lo si vedrà aperto al compimento totale di sé, delle attitudini individuali e dei cambiamenti che queste attitudini possono avere nel corso della sua vita.
E allora, al di là dell'aspetto filosofico e teorico dell'anarchismo, che convalida e sostiene intellettualmente l'aspetto pratico dell'agire in senso antiautoritario, di fronte all'evidenza di un'alternativa felice percorribile e che già si percorre da almeno cento anni, è quantomeno ingenuo chiedersi ancora 'che fare'? Per quanto io possa aver capito, e se mi si concede il lusso di offrire un consiglio, io credo che il primo passo da compiere sia quello di sgravarci tutti del peso dei pregiudizi in merito a ciò che ci hanno fatto credere sull'anarchia, e cominciare a ragionare senza quei filtri di una cultura consueta che porta a difendere ideologie precostituite, dogmi ingabbianti, che fanno perpetuare strutture e strumenti autoritari. Penso che ragionare col cuore e non con i codici scritti sia un dovere morale, e se questo ragionar di cuore non riesce a far riemergere quel fanciullino ancora chiuso in noi, può certamente farci considerare i bambini per ciò che realmente sono, esseri umani aventi gli stessi diritti di tutti gli altri esseri umani e non umani. Partire da qui mi sembra doveroso oltre che logico, senza più avere la presunzione di considerarci più esseri umani di qualcun altro, e quindi arrogarci diritti che non abbiamo, neppure sugli animali.
Quante volte questi adulti prendono decisioni che riguardano i bambini nella convinzione assoluta di fare la cosa giusta? (giusta per chi?). E quante volte possiamo poi riscontrare che quelle decisioni hanno prodotto il contrario di ciò che, in buona fede, si prefiggevano? Non ho mai incontrato uno o una docente che, di fronte allo sfacelo di cui è complice, non abbia detto 'ma io sono diverso/a dai miei colleghi', cercando così di discolparsi. Credo che vi siano eccezioni, certo, ma in questa società l'eccezione, oltre che confermare la regola, si paga a carissimo prezzo, e io ne so qualcosa, perché la disobbedienza è punita sia dalla legge, sia dalla società irreggimentata. Non so quanti siano disposti a pagare personalmente le conseguenze del loro dichiararsi 'eccezioni'. Non voglio far polemiche, ma a giudicare dal numero delle volte in cui mi sono sentito dire 'ma io sono diverso dagli altri', dovrei trovarmi di fronte a una società di libertari disobbedienti, a una scuola italiana straripante di pedagogia libertaria, ma ho occhi abbastanza attenti per vedere che non è così, purtroppo. Per quanto mi riguarda, anche di fronte ai ragazzi e alle ragazze, non ho mai nascosto il mio continuo mettermi in discussione, perlustrando le mie convinzioni, accorgendomi a volte che erano sbagliate e autoindirizzandomi di conseguenza verso un continuo miglioramento. Non ho ancora finito e so che non finirò mai, ma questo è il senso della mia vita. Secondo me, la vita di un individuo è, o dovrebbe essere, anche un continuo fluire dinamico di posizioni di coscienza, al fine di migliorare la rotta morale personale.
Ma al di là delle rarissime eccezioni, l'adulto scolarizzato, sclerotizzato, normalizzato, ha la particolarità di essere talmente presuntuoso da non ammettere mai a se stesso e a gli altri che la colpa di un risultato diverso da quello da lui auspicato sia la sua: di fronte al suo fallimento in qualità di educatore, il padagogo tende a cercare fuori di sé qualcosa o qualcuno da incolpare, trovandolo purtroppo immancabilmente nel bambino innocente che non sa difendersi, e che sicuramente - pensa l'adulto - non ha saputo o voluto imparare la sua lezione moralizzante. A quel punto il pedagogo inasprirà la sua lezione autoritaria, ottenendo ovviamente un risultato peggiore, poiché, o il bambino si ribellerà (motivo per cui, secondo l'adulto, va ulteriormente represso e sedato), o il piccolo si deformerà subito in un'acquiescenza passiva e devota, obbedendo agli ordini superiori, cioè autoannullandosi come individuo autodeterminato, ed è proprio questo che renderà felice l'adulto educatore, e più in generale la società di passivi adattati, ma soprattutto gli ingegneri del sistema che hanno deciso tutto questo, esattamente così com'è, e come questo tutto si deve realizzare.
Ma perché l'adulto, ammesso e non concesso che debba essere lui a decidere per il bambino, è sempre così sicuro delle sue decisioni? Ci sono casi in cui l'adulto decide in base alla propria frustrazione, o ai propri capricci, oppure perché ha constatato il suo fallimento in società (ma fallire in quanto ingranaggio dovrebbe significare non essersi adattati al sistema, e quindi dovrebbe essere motivo di orgoglio, non di pena), o semplicemente perché vuole 'migliorare' il bambino (purtroppo non c'è mai fine a questa presunzione di miglioramento), dove migliorare vuol dire far aderire il bambino in maniera più precisa ai dispositivi del Dominio. In molti altri casi, l'adulto decide sulla base di una deontologia virtuale, secondo un codice morale che gli è piovuto dall'alto e che ha imparato ad assorbire fin da bambino in maniera automatica senza interporre alcuna critica costruttiva. In tutti i casi, le decisioni calate dall'alto sul bambino risultano per l'adulto sempre insindacabili e vengono imposte in nome del sempiterno e presuntuosissimo 'lo faccio per il tuo bene'. Poi quel bene non si rivela davvero tale (a meno che non riguardi una reale incolumità fisica), anche perché procede da una esclusiva volontà dell'adulto in perenne ricerca di soddisfazioni personali, frustrato com'è. Ma io vorrei fare un esempio concreto, di quelli a cui si deve guardare in faccia con coraggio ed umiltà.
In un articolo precedente descrivevo alcune nuove disposizioni calate dall'alto che riguardano la ricreazione nella scuola dove insegno. I lettori di questo blog ricorderanno queste disposizioni relative allo scaglionamento obbligatorio degli studenti durante la ricreazione. Quando la cupola degli educatori aveva deciso di mandare in bagno i bambini divisi per classi (nessuno studente di una classe inferiore può incontrare gli studenti delle classi superiori), lo aveva fatto in forza di una sua presunta e assoluta convinzione di fare giusto e bene. E questi adulti insegnanti erano - e purtroppo sono ancora - convintissimi della bontà di questa loro decisione, talmente convinti che non importa nulla se la delibera contravviene alle loro stesse belle parole in merito alla socializzazione ('la nostra scuola promuove la socializzazione', si dice e si scrive di solito sui depliants di propaganda), una socializzazione a questo punto del tutto supposta e falsa più di quanto non avvenga normalmente, laddove nelle altre scuole i ragazzi si incontrano tutti quanti durante la ricreazione, retaggio dell'ora d'aria, che a scuola non è neanche un'ora. Il risultato di questa decisione presa 'a fin di bene per evitare atti di bullismo' - dissero e dicono ancora - lo avevo già scritto: una ragazzina di primo anno, trovatasi in bagno nei cinque minuti riservati alle seconde classi, è stata offesa da qualcuno superiore a lei che stava lì in bagno, in barba alla socializzazione, alla 'prevenzione del bullismo', alla solidarietà, alla fratellanza, alla pace, e a tutte le belle parole che la scuola stessa in genere proferisce, e che sanno di presa in giro. Ciò che viene imparato a scuola si riversa nella società (e viceversa attraverso gli adulti scolarizzati). Eppure gli adulti sono sempre convinti di fare del bene, il bene dei bambini, ed è questo che non deve mai sfuggire da questo discorso, e perciò lo ripeto. Ma cosa ne sanno gli adulti di cosa è bene per gli altri? E soprattutto, con quale diritto possono ancora gli adulti decidere sui bambini, credendo di far loro del bene (in realtà lo vogliono fare a se stessi), se questi adulti dimostrano solo di essere un malevolo prodotto pedagogico, a loro volta pedagoghi in questa società autoritaria e ingiusta? Cosa dovremmo aspettarci da questo circolo vizioso?
Dobbiamo dirlo con franchezza: gli adulti scolarizzati sono sostanzialmente degli adattati che insegnano ad adattarsi. Per adattati intendo persone che hanno anche imparato benissimo ad usare gli strumenti autoritari, e solo quelli (non conoscendone altri), per portarli a giudicare e sentenziare sulla base di convinzioni che sono autoritarie già in origine. Questi strumenti anche culturali, tra i quali figura l'idea del bambino come proprietà privata, essendo strumenti autoritari, non possono certo configurarsi come strumenti che volgono la società ad un vero cambiamento, anche se nel momento di deciderne l'uso tutti li pensano in buona fede come eccellenti a questo scopo. In sostanza, questa società si fonda sulla convinzione che ogni azione, ogni decisione adulta moralizzatrice sia giusta a priori, a prescindere dalla direzione in cui vanno queste decisioni e dai risultati deleteri ottenuti e visibili ormai anche sul piano storico, dove allora la colpa sarà data a qualcos'altro, magari vigliaccamente proprio al bambino 'cattivo', ovvero all'anello più debole e indifeso della società sedicente umana. E di fronte al bambino che noi adulti pensiamo cattivo (quando invece egli vuole soltanto vivere la sua vita in pace e concretizzare il proprio concetto di bene e di vita), un altro esempio di decisione presa arbitrariamente dall'adulto e creduta giusta, ma con risultati nefasti, è quella che prevede sempre una qualche forma di punizione o di 'correzione', con le buone o con le cattive, come il vietare il gioco al bambino o il supplicare la maestra di essere ancora più severa, o ancora più dolcemente subdola con le sue formule di ricatto adulatorio. Come si può combattere l'autoritarismo con l'autoritarismo? Sarebbe come credere che la pace tra i popoli si realizzi per mezzo di confini artificiali, nemici costruiti all'occorrenza, missili e soldati. Ma questo tipo di società ci crede davvero, purtroppo, fondata com'è su una cultura disciplinante di tipo militare assorbita obbligatoriamente prima a scuola, poi nella società già disciplinata.
L'adulto saprebbe forse pensare a qualcosa di diverso dallo strumento autoritario e legalitario (ad esempio il ricatto di un premio o di una ricompensa) che ha imparato a scuola e in società? No, come infatti non sa pensare ormai neanche a una libertà che non sia soggetta a qualche tipo di controllo esterno da sé, e che perciò non può mai essere libertà. L'adulto è convintissimo che le risoluzioni che egli prende in merito alla vita dei bambini siano le uniche possibili, le più doverose e giuste, quelle che egli motiva di solito con un desolante e indicativo 'lo fanno tutti, quindi è giusto'. Il sol pensiero di dare fiducia al bambino destabilizza l'adulto adattato, quando non lo manda in bestia. Pensare al bambino come una persona con tutti i suoi diritti (di scelta, di decisione, di autodeterminazione, di errore...) è qualcosa di inarrivabile per l'adulto scolarizzato e disciplinato, qualcosa di inconcepibile. L'idea di una propria libertà, e di vederla anche negli altri, terrorizza l'adulto adattato alla gabbia sociale, gli fa credere che l'umanità intera si disintegri per 'troppa libertà' (la libertà è ormai pensata a priori come qualcosa di distruttivo), e non si accorge invece che la disintegrazione di tutto, persino dell'ambiente, sta avvenendo sotto i suoi occhi proprio a causa della mancanza di libertà, del continuo controllo sugli individui da parte di altri individui, una sorveglianza che egli benedice, vuole, perpetua e giustifica anche con le sue decisioni prese 'a fin di bene', di marca autoritaria e giammai libertaria, quand'anche conoscesse il significato profondo e onesto del termine 'libertaria'.
Così sul bambino grava sempre una colpa che non ha, quella di essere un bambino, un organismo biologico considerato inferiore all'adulto, cioè un essere 'poco serio', di intelletto informe, privo di un progetto autonomo di vita, semovente a nove mesi circa, da moralizzare, addestrare e plasmare secondo la madre-forma stabilita da una logica di Domino che si riflette sulla società attuale, la società mercantile degli adulti, i quali si considerano nel giusto rispetto ai bambini e deliberano al posto loro utilizzando gli strumenti del sistema, la cultura del sistema, che non può far altro che riprodurre il sistema stesso. Gradirei ripetere: le eccezioni, essendo tali, non fanno la differenza in fatto di costruzione sociale, purtroppo, però la fanno in termini di morale, quella di coloro che eventualmente ne sanno cogliere il valore intrinseco, e di chi sa di essere un'eccezione, un disobbediente per una sua personale questione di dignità, al di là delle conseguenze punitive a cui è destinato in forza di una legge che non riconosce come giusta, e che non lo sostituisce in quanto persona autonoma.
Che fare? si chiedono sicuramente anche alcuni lettori di questo blog. Ritengo questa domanda quantomeno priva di una reale giustificazione, dal momento che proprio questo blog riassume e - oserei dire - ostenta una pratica alternativa, soluzioni diverse, che vanno tutte in direzione opposta alla consuetudine autoritaria. Ma è proprio questo agire in opposizione al consueto che credo faccia paura ai molti. La libertà oggi fa ancora più paura di ieri, spinge le persone a prendersi delle responsabilità che non vogliono e non sanno più prendersi, le spinge a scoprirsi complici del sistema, a vedersi produttori e ri-produttori di questo tipo di società ingiusta fatta di chiavi che creano padroni e piramidi. La libertà, l'idea stessa di una vera libertà, esorta l'adattato a non abbandonare il suo affetto per l'assistenzialismo di Stato che non assiste, ma sfrutta e violenta, lo fa aggrappare con più vigore alle convenzioni abituali, ai pregiudizi, come se queste convenzioni e questi pregiudizi fossero la sua coperta di Linus che però non scalda, non consola, ma corrode, consuma la sua vita e quella degli altri. E allora, dietro la domanda 'che fare?' credo si nasconda un universo di diligente e ferrea volontà di rimanere dove si è, di attaccarsi semmai febbrilmente a qualcosa che ogni tanto sembra cambiamento ma che non può esserlo (riforme) fintanto che del male ne rimane la sua radice profonda, la sostanza, la cultura generalizzata e generalizzante. Questa voglia di stare dove si è, a mio giudizio, emerge perciò con forza quando l'alternativa proposta è davvero libertaria, anarchica, e allora questa alternativa fa paura (anche se inevitabilmente attrae per il suo valore umano e morale) a prescindere dai risultati, o proprio a causa di questi, che anche questo blog e la mia pratica quotidiana o quella di altri educatori libertari dimostrano in maniera eclatante. E quando parlo di risultati non intendo un obiettivo che viene raggiunto per mezzo di un programma calato dall'alto, misurabile, ma di una evidenza il cui merito sta tutto nella natura degli individui che, facendo in modo che essi la seguano liberamente (ed è questo il mio unico compito), si autoeducano nel segno dell'innato senso di collaborazione e della curiosità spontanea.
Per quanto mi riguarda, vorrei fare più di quel che già faccio, ma non dimentichiamo che io agisco in una scuola di Stato e per sole due ore alla settimana ogni classe, cioè in una struttura carceraria dove quel che faccio, per come lo faccio, subisce attacchi ferocissimi, attacchi diretti anche alla mia persona. Ma se noi guardiamo alle esperienze di Sébastien Faure, Lev Tolstoj, Francisco Ferrer, Paulo Freire, Alexandre Neill, solo per citare alcuni pedagogisti anarchici, fino ad arrivare alle odierne scuole libertarie in tutto il mondo, chiunque potrà constatare in che modo l'essere umano, per mezzo di esse o facendo in modo che la scuola sia la vita stessa, possa emergere in tutta la sua unicità e autodeterminazione, in tutta la sua chiarezza di individualità cosciente e creativa, ben lungi dal voler uccidere se stesso sotto il peso di un adattamento volontario, e lo si vedrà aperto al compimento totale di sé, delle attitudini individuali e dei cambiamenti che queste attitudini possono avere nel corso della sua vita.
E allora, al di là dell'aspetto filosofico e teorico dell'anarchismo, che convalida e sostiene intellettualmente l'aspetto pratico dell'agire in senso antiautoritario, di fronte all'evidenza di un'alternativa felice percorribile e che già si percorre da almeno cento anni, è quantomeno ingenuo chiedersi ancora 'che fare'? Per quanto io possa aver capito, e se mi si concede il lusso di offrire un consiglio, io credo che il primo passo da compiere sia quello di sgravarci tutti del peso dei pregiudizi in merito a ciò che ci hanno fatto credere sull'anarchia, e cominciare a ragionare senza quei filtri di una cultura consueta che porta a difendere ideologie precostituite, dogmi ingabbianti, che fanno perpetuare strutture e strumenti autoritari. Penso che ragionare col cuore e non con i codici scritti sia un dovere morale, e se questo ragionar di cuore non riesce a far riemergere quel fanciullino ancora chiuso in noi, può certamente farci considerare i bambini per ciò che realmente sono, esseri umani aventi gli stessi diritti di tutti gli altri esseri umani e non umani. Partire da qui mi sembra doveroso oltre che logico, senza più avere la presunzione di considerarci più esseri umani di qualcun altro, e quindi arrogarci diritti che non abbiamo, neppure sugli animali.