Franco Basaglia, nel corso della sua vita, ha avuto modo di esprimere pienamente il suo pensiero anche in merito alla nostra società, al concetto di potere, alle istituzioni dello stato che egli definiva senza mezzi termini istituzioni violente: violente per loro stessa natura. Fra queste istituzioni Basaglia annoverava la scuola, con i suoi meccanismi interni distopici, spesso occulti, e con i suoi tecnici (i docenti) che, diceva, hanno un ruolo mistificante, perché, come gli altri tecnici delle altre istituzioni 'non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale. Il loro compito - che viene definito terapeutico-orientativo - è quello di adattare gli individui [nel nostro caso gli studenti, ndr] ad accettare la loro condizione di «oggetti di violenza», dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa, al di là delle diverse modalità di adattamento che potranno adottare'. La presa di posizione basagliana sulla scuola, però, come sappiamo, non è stata al centro delle sue battaglie. Tuttavia parlarne gli è servito per raggiungere il suo obiettivo.
E' interessante notare come in quegli anni, tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso, vi sia stata una concentrazione di intellettuali e professionisti che rilanciavano le medesime questioni, ognuno analizzando la società dal suo punto di vista e arrivando però tutti alle medesime conclusioni: questo sistema nasce dalla violenza e attraverso questa si esprime per ottenere la perpetuazione del suo tipo di ordine fatto di pochi oppressori e molti oppressi. Così, ad esempio, troviamo un Michel Foucault che ci parla della scuola come al modello usato per concepire le prigioni moderne, ma anche di come il vero potere, quello concreto e palpabile, consista non tanto nell'antico concetto del vertice di una piramide, ma nella rete operosa di funzioni svolte alla base dagli stessi oppressi, laddove le istituzioni che sembrano le più filantropiche sono invece quelle che ci sono più deleterie. Ma c'è anche un Ivan Illich che, anziché di tecnici come li chiama Basaglia, parla spessissimo di specialisti, quindi della loro dittatura che ha finito per inglobarci tutti nella convinzione che non si possa più fare nulla senza di loro, in primo luogo istruirsi.
Quando recentemente, dopo aver letto il mio libro, una persona mi ha definito 'il Basaglia della scuola', mi sono sentito lusingato da una parte, ma demoralizzato dall'altra, perché la storia della 'legge 180' - voglio dire, i suoi sviluppi storici - non sono poi quelli che Basaglia aveva sognato. E se quella libertà degli internati sognata da Basaglia si è solo trasformata in una prigionìa diversa, in una riforma del male, mi rendo conto che parlare di descolarizzazione oggi, soprattutto oggi, non solo risulta qualcosa di fortemente eretico e assurdo, ma anche qualcosa di molto ostico da comprendere, quando non impossibile. Basaglia, quanto meno, aveva il supporto morale di una società allora fortemente e fortunatamente critica, fatta di giovani sessantottini che lo capivano e ne appoggiavano il pensiero e gli obiettivi. E anche Illich, negli stessi anni di Basaglia, godeva del supporto morale di una larga parte di società. Erano davvero anni meravigliosi dal punto di vista del pensiero critico giovanile, dell'apertura mentale, e delle lotte sociali. Ma oggi parlare di descolarizzazione è condannarsi a una solitudine che rende minuscoli e impotenti dentro un'immensa galassia fatta di stelle ormai devitalizzate, normalizzate, morte. Lo dico con amarezza: mi sento una voce nel deserto.
Mi auguro solo, come storia insegna, che da questo silenzio siderale sulla descolarizzazione nasca presto un movimento di liberazione dei bambini così forte, così grande, così potente, da riuscire a cambiare definitivamente le sorti infauste di questo mondo disumanizzato e colonizzato dall'istruzione di stato. In direzione ostinata e contraria.
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