Poi successe che cominciai a insegnare nella scuola e, ahimé, tutto, anche l'attività di cui sopra, smise di far parte della mia esistenza: la scuola assorbì molto presto tutto il mio tempo, la mia vita, disperdendo i miei interessi. Nel periodo di transizione, cioè quando stavo già insegnando a scuola ma riuscivo ancora a svolgere l'attività di cui sopra - periodo durato ben poco - ho dato sempre meno importanza al denaro che gli 'allievi' potevano dare per la mia attività, non mi importava se non pagavano, perché quel che mi dava la scuola mi era già sufficiente per vivere. Esiste anche un altro tipo di rapporto con il denaro e con il prossimo, un rapporto fondato sulla non avidità, sulla comprensione di chi ha più bisogno di noi, sulla solidarietà e semplicità, ma anche su ciò che non dovrebbe mai essere corrotto dalla mercificazione e dalla competizione, come i rapporti umani quando sono veramente tali.
Libero insegnamento, libero apprendimento, rapporti conviviali.
Prima di entrare nella scuola come docente ho fatto tantissime altre cose. Non sto a elencarle tutte perché vi annoierei, dico solo che hanno riguardato, il più delle volte, il mondo dell'arte, nelle sue più svariate manifestazioni. Forse, una di queste attività può essere oggetto d'interesse, qui, perché si lega anche al campo dell'insegnamento. Un insegnamento libero. Davo 'lezioni' di disegno e pittura, e quando dico insegnamento libero mi riferisco anche all'apprendimento libero da parte di coloro che seguivano i miei corsi, che in realtà non erano corsi, non erano come se ne vedono in giro, perché non erano strutturati, non c'era proprio niente di strutturato o di programmato. Tutti noi eravamo assolutamente liberi di fare, di chiedere, di interrompere, di riprendere, di annullare. Nessuno dei partecipanti era sottoposto a verifiche o classificazioni, neppure in forma larvata o indiretta. Nessuna imposizione e nessuna asimmetria, quindi nessun vero allievo e nessun vero maestro. L'impostazione anarchica dei corsi si basava essenzialmente sull'autoriflessione e l'autogestione dei partecipanti: chi disegnava o dipingeva era giudice di se stesso. Il mio ruolo era soltanto quello del suggeritore. Non di rado gli 'allievi' - chiamiamoli così per comodità - arrivavano e mi trovavano alle prese con un mio quadro, e questo, se vogliamo, faceva inconsapevolmente parte del processo di insegnamento: gli allievi potevano incuriosirsi e farmi tutte le domande che volevano circa il soggetto che stavo dipingendo e su come lo stavo facendo. Non c'era un tema prestabilito, ognuno disegnava e dipingeva quello che più gli piaceva, nel modo in cui desiderava, con il livello che possedeva e con la mèta in testa da raggiungere, se ce l'aveva. Non c'erano neppure vincoli di tipo anagrafico, i partecipanti avevano le età o le origini più diverse, tutti insieme appassionatamente, ognuno col suo modo di essere. Naturalmente, non c'era neppure un obbligo di frequenza, né di orari canonici da rispettare (i partecipanti potevano iniziare tardi e uscire prima, se lo volevano, a seconda delle loro esigenze e desideri). Il risultato fu un'esperienza molto bella, viva, un ambiente disteso e cordiale, Ivan Illich l'avrebbe definito 'conviviale'. Una bambina era felice di venire a dipingere dopo la sua uscita pomeridiana dalla scuola: entrava, accompagnata da qualcuno della sua famiglia, indossava il suo camice, e si rilassava dipingendo.
Gustavo Esteva
'...A quel punto, sia mia figlia che noi genitori sapevamo che il problema non è la qualità della scuola, ma la scuola stessa. Per quanto riconfigurassimo l’aula, il programma di studio, ecc., la scuola rimaneva il problema e non la soluzione. Per quanto la nostra scuola fosse libera, per quanto fossero belli l’albero e il giardino che sostituivano l’aula, per quanto gli insegnanti fossero aperti e creativi, la nostra scuola era ancora una scuola. (Illich l’avrebbe messo in luce con estrema chiarezza nel suo Descolarizzare la società, come ho scoperto molti anni dopo)'.
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