I disperati del mondo, tenuti con molta abilità sotto costante illusione e speranza, paura e insicurezza, difficilmente riescono a capire che, alla fine dei conti (conti che avrebbero già dovuto fare secoli fa), rossi, bianchi, neri, blu, a pois... a ben vedere di governi ce n'è soltanto uno. Una è la cultura imposta, una è la visione conseguente delle cose, unica è la direzione, unica è la gestione delle collettività, ed una soltanto è logicamente la realtà che può essere creata da questo tipo di istruzione.
Le ideologie di partito, politico e/o religioso, sfoltite dalle rispettive retoriche di superficie che solo in apparenza le diversificano, rispondono tutte al medesimo progetto comune: perpetuare l'esistente, lo status. Va da sé, quindi, che per modificare l'esistente non serve cambiare governi, bisogna invece adottare un altro sistema culturale. Ma questo non si può fare fino a quando le masse continueranno a farsi scolarizzare ed istruire ('educare') da chi le vuole con un solo tipo di cultura nella testa. Cultura è colonizzazione. Quando Ivan Illich definiva la scuola l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com'è, intendeva dire proprio questo, che con un solo tipo di cultura non si avrà che un solo tipo di risultato, nessun altro. Uno degli incredibili effetti della nostra cultura autoritaria è quella che ci fa credere di poter cambiare le cose intervenendo per mezzo e all'interno dei meccanismi che si vogliono combattere ed eliminare (riformismo), e questo appare generalmente come la cosa più logica, ma proprio perché viene ritenuta la cosa più logica dalla maggioranza delle persone istruite per mezzo della stessa cultura dovrebbe essere esclusa dal panorama delle soluzioni o, quantomeno, guardata con molto sospetto. La Storia infatti ci insegna che proprio il riformismo non è altro che uno dei tanti strumenti usati dal Capitale per potersi perpetuare. Io stesso, che opero da libertario in un contesto istituzionalizzato, posso garantire che non è possibile cambiare le cose dall'interno senza avere conseguenze invalidanti che vanificano ogni buona intenzione. Perciò rimango clandestino.
Dicevo che occorre cambiare sistema culturale, cambiare direzione, ma questo vale per gli adulti, i quali sono già stati deviati dal percorso naturale proprio attraverso l'impianto di una cultura specifica. Invece i bambini non hanno alcun bisogno di cambiare direzione fino a quando non vengono istruiti con la cultura dominante, cioè molto presto, e non a caso. Noi tutti nasciamo liberi e senza sovrastrutture escludenti, i bambini piccoli non conoscono odio a causa del colore della pelle o della religione o dell'orientamento sessuale o di chissà cos'altro, non concepiscono il mondo spezzettato artificialmente da confini nazionali; al contrario, i bambini piccoli hanno una straordinaria predisposizione all'incontro curioso con l'altro, allo scambio di informazioni. Mi altero quando gli adulti credono, in modo molto presuntuoso, che i bambini vadano educati. Educarli a che cosa se i bambini sono già quel mondo che desideriamo? Educarli a che cosa, dunque, se non ad adattarsi con le buone o le cattive a questa società? E con che mezzo educarli? Con la scuola? Con dei contesti comunque scolarizzanti? E chi li educherebbe questi bambini? Gli adulti già scolarizzati, adattati, e fieri di essere tali? E allora si educherebbero, come infatti fanno, alla perpetuazione del sistema, alla cultura escludente, dominante e competitiva, mercantile e gerarchica, si educherebbero a tutto ciò che rende gli adulti presuntuosi e violenti tra loro stessi, e crederebbero che sia tutto normale e naturale, e che soltanto l'intervento dell'educazione (ancora!) possa risolvere i problemi (dovuti all'educazione!).
Cambiare cultura significa in sostanza fare in modo che i bambini non vengano contaminati dalla cultura dominante, lasciare che la loro istruzione naturale prosegua il suo cammino senza alcun intervento esterno che non sia esplicitamente richiesto dal bambino o che non serva a garantirgli l'incolumità fisica. Le informazioni contenute nel seme hanno diritto di tutela. Se questo fa paura, e so che lo fa, io inviterei a riflettere sulla paura che può fare piuttosto la nostra cultura di guerre e genocidi inimmaginabili. Fanno più paura i bambini lasciati liberi o gli adulti organizzati in partiti e milizie laiche e/o religiose? Fanno più paura tanti individui unici e creativi oppure una massa di gente che non sa immaginarsi una vita senza guinzaglio? Fa più paura un bambino che guarda curioso e sorridente altri bambini a lui sconosciuti, o un adulto che sgancia una bomba atomica obbedendo a un ordine altrui? Pensiamo davvero che un bambino libero, curioso, gioioso, e senza sovrastrutture culturali come le nostre diventi un essere violento e frustrato come noi? Attenzione, perché a questa domanda la cultura dominante vuole che si dia una risposta univoca e sempre falsa, e cioè quella che recita così: 'io vedo che l'essere umano è cattivo, quindi credo che egli nasca già in questo modo' (tipico ragionamento fallace del cosiddetto 'uomo a una dimensione' di cui ci ha parlato Herbert Marcuse). Ma l'essere umano non nasce né buono e né cattivo, egli nasce con la potenzialità di fare del male (e occorrerebbe specificare ma non adesso), ma anche del bene, a seconda, poiché la maggiore o minore quantità di bene o di male che l'Uomo può generare, scriveva Fromm, dipende esclusivamente dal tipo di cultura che egli acquisirà e con la quale costruirà il suo contesto. Un contesto autoritario e competitivo come il nostro non può che generare un individuo altrettanto violento e autoritario. Viceversa, un contesto non competitivo, non gerarchico, includente, libertario, non può che generare un individuo aperto, autodeterminato e solidale. Inutile quindi domandarsi che tipo di contesto costruirebbero autonomamente i bambini, domani, quando saranno adulti, senza imporre loro, oggi, le nostre divisioni e classificazioni, senza i nostri dogmi e credenze, senza la nostra cultura estremamente escludente e competitiva. Quando osservo i bambini piccoli che interagiscono liberamente tra loro, io vedo il mondo che gli adulti auspicano e che in verità avevano già vissuto in quel loro passato felice che però, purtroppo, in pochi conoscono.
Dicevo che occorre cambiare sistema culturale, cambiare direzione, ma questo vale per gli adulti, i quali sono già stati deviati dal percorso naturale proprio attraverso l'impianto di una cultura specifica. Invece i bambini non hanno alcun bisogno di cambiare direzione fino a quando non vengono istruiti con la cultura dominante, cioè molto presto, e non a caso. Noi tutti nasciamo liberi e senza sovrastrutture escludenti, i bambini piccoli non conoscono odio a causa del colore della pelle o della religione o dell'orientamento sessuale o di chissà cos'altro, non concepiscono il mondo spezzettato artificialmente da confini nazionali; al contrario, i bambini piccoli hanno una straordinaria predisposizione all'incontro curioso con l'altro, allo scambio di informazioni. Mi altero quando gli adulti credono, in modo molto presuntuoso, che i bambini vadano educati. Educarli a che cosa se i bambini sono già quel mondo che desideriamo? Educarli a che cosa, dunque, se non ad adattarsi con le buone o le cattive a questa società? E con che mezzo educarli? Con la scuola? Con dei contesti comunque scolarizzanti? E chi li educherebbe questi bambini? Gli adulti già scolarizzati, adattati, e fieri di essere tali? E allora si educherebbero, come infatti fanno, alla perpetuazione del sistema, alla cultura escludente, dominante e competitiva, mercantile e gerarchica, si educherebbero a tutto ciò che rende gli adulti presuntuosi e violenti tra loro stessi, e crederebbero che sia tutto normale e naturale, e che soltanto l'intervento dell'educazione (ancora!) possa risolvere i problemi (dovuti all'educazione!).
Cambiare cultura significa in sostanza fare in modo che i bambini non vengano contaminati dalla cultura dominante, lasciare che la loro istruzione naturale prosegua il suo cammino senza alcun intervento esterno che non sia esplicitamente richiesto dal bambino o che non serva a garantirgli l'incolumità fisica. Le informazioni contenute nel seme hanno diritto di tutela. Se questo fa paura, e so che lo fa, io inviterei a riflettere sulla paura che può fare piuttosto la nostra cultura di guerre e genocidi inimmaginabili. Fanno più paura i bambini lasciati liberi o gli adulti organizzati in partiti e milizie laiche e/o religiose? Fanno più paura tanti individui unici e creativi oppure una massa di gente che non sa immaginarsi una vita senza guinzaglio? Fa più paura un bambino che guarda curioso e sorridente altri bambini a lui sconosciuti, o un adulto che sgancia una bomba atomica obbedendo a un ordine altrui? Pensiamo davvero che un bambino libero, curioso, gioioso, e senza sovrastrutture culturali come le nostre diventi un essere violento e frustrato come noi? Attenzione, perché a questa domanda la cultura dominante vuole che si dia una risposta univoca e sempre falsa, e cioè quella che recita così: 'io vedo che l'essere umano è cattivo, quindi credo che egli nasca già in questo modo' (tipico ragionamento fallace del cosiddetto 'uomo a una dimensione' di cui ci ha parlato Herbert Marcuse). Ma l'essere umano non nasce né buono e né cattivo, egli nasce con la potenzialità di fare del male (e occorrerebbe specificare ma non adesso), ma anche del bene, a seconda, poiché la maggiore o minore quantità di bene o di male che l'Uomo può generare, scriveva Fromm, dipende esclusivamente dal tipo di cultura che egli acquisirà e con la quale costruirà il suo contesto. Un contesto autoritario e competitivo come il nostro non può che generare un individuo altrettanto violento e autoritario. Viceversa, un contesto non competitivo, non gerarchico, includente, libertario, non può che generare un individuo aperto, autodeterminato e solidale. Inutile quindi domandarsi che tipo di contesto costruirebbero autonomamente i bambini, domani, quando saranno adulti, senza imporre loro, oggi, le nostre divisioni e classificazioni, senza i nostri dogmi e credenze, senza la nostra cultura estremamente escludente e competitiva. Quando osservo i bambini piccoli che interagiscono liberamente tra loro, io vedo il mondo che gli adulti auspicano e che in verità avevano già vissuto in quel loro passato felice che però, purtroppo, in pochi conoscono.