Il senso dei valori è stato stravolto, e questi valori stravolti si tramandano di generazione in generazione, si insegnano e si imparano ovunque, in famiglia, all'asilo, a scuola, in chiesa, in caserma, nei modelli mediatici, nella struttura sociale e nei rapporti che conseguentemente la definiscono. Questi valori costituiscono la morale comune, il codice convenzionale attraverso il quale si riesce a modificare il comportamento dei singoli e dei gruppi sociali. E' cultura, meglio dire un tipo preciso di cultura, è colonizzazione, un tipo preciso di innesto. Intendiamoci, quando una società è sana, dinamica, i valori cambiano seguendo il cambiamento e le istanze degli strati popolari, mentre invece in questa società malata e statica non soltanto certi valori sembrano aver ricevuto un mandato assoluto, ma vengono determinati dai piani alti e costruiti in modo tale che gli strati più bassi li perpetuino ad libitum. Anche per questo è Status.
Cosa ne è del naturale valore della disobbedienza? La cultura che ci è stata imposta lo ha fatto diventare un disvalore, un peccato da espiare, un'azione riprovevole, socialmente condannabile, punibile. I bambini sono costretti a imparare questo disvalore molto presto. Il giusto compito di ogni bambino e bambina -vanto e sfoggio di ogni adulto padrone adattato- oltre a quello di eseguire gli ordini senza discutere e contro la sua volontà, dev'essere quello di imparare ad amare il concetto di obbedienza, di farlo amare a sua volta, di difenderlo. Da adulti, questi bambini, siano essi divenuti genitori tradizionali o maestri tradizionali o qualsiasi altro genere di caporale, ripeteranno ai piccoli che disobbedire non è educato, non è civile, non sta bene, e che bisogna imparare a rispettare i più grandi (che nella cultura autoritaria vuol dire sostanzialmente chinarsi benevolmente di fronte alle autorità e ai più ricchi, e servirli). Quindi disobbedire, nella nostra cultura, non è educato, non è civile. Educazione e civiltà: altri due concetti stravolti in funzione della morale autoritaria che modella la coscienza di ognuno e i comportamenti della massa.
Credo sia necessario mettere in discussione ogni cosa, ogni parola, ogni concetto appreso automaticamente, dogmaticamente, ma secondo me quest'operazione di smembramento della cultura acquisita non si può fare se prima non ci predisponiamo a farlo, ci aiuterebbe molto a cambiarci dentro, quindi a cambiare veramente il mondo riportandolo alle sue inclinazioni naturali. Io però vedo che la società inneggia alla cultura, la vuole. Direi benissimo, ma di quale cultura si ha realmente bisogno? Quella della scuola tradizionale? Quella delle librerie sul corso dove Joel Spring e Rudolf Rocker -due nomi a caso- non sono neanche in catalogo? Quella obbligatoria ma 'gentilmente offerta' dagli strumenti mediatici del potere? O si ha più bisogno di una sana e fiera controcultura demistificatrice? E' questione di decidere, di scegliere, oltre che di specificare il tipo di cultura. Dire semplicemente 'viva la cultura' o 'viva i libri' secondo me non ha senso, è bello da ascoltare o dire, ma lo trovo alquanto retorico, incompleto.
Nelle scuole si parla di Gandhi, ma in che termini? A quale scopo? Credo che venga preso in considerazione solo per veicolare il concetto di resistenza passiva, occultando al contempo la pratica della disobbedienza civile, senza la quale qualsiasi resistenza passiva diventa mera pratica masochista. Per fare un esempio di disobbedienza civile, il filosofo Henri David Thoreau, che sul tema scrisse un libro, raccontò in prima persona alcuni episodi a lui accaduti, uno dei quali fu l'atto volontario di non pagare una tassa perché ritenuta ingiusta e poi, senza opporre alcuna resistenza fisica, porse i suoi polsi al poliziotto e alla galera.
Invece quelle parole io le ho dette, ho fatto la mia disobbedienza, ho sovvertito l'ordine, ho reagito al divieto e alla morale comune, e non è detto che poi io mi sia seduto per terra, ma a quel punto avrei potuto farlo. Secondo me, non può esistere alcun tipo di resistenza senza una disobbedienza, senza una sovversione della norma imposta, altrimenti, come dicevo, la resistenza non ha alcun motivo di esistere, è solo masochismo, se non idiozia. Secondo questa sedicente 'società civile', poiché la disobbedienza agli ordini è un reato, un atto di inciviltà, la mia si configura senza dubbio come disobbedienza incivile (l'ho già detto, è tutto stravolto), ma credo che non vi sia nulla di incivile nel salvaguardare la propria dignità, sempre che si voglia dare alle parole 'civile' e 'civiltà' un valore diverso da quello attuale, per cui l'obbedienza alle regole altrui sarebbe finalmente intesa come l'intende Charles Alexandre:
Cosa ne è del naturale valore della disobbedienza? La cultura che ci è stata imposta lo ha fatto diventare un disvalore, un peccato da espiare, un'azione riprovevole, socialmente condannabile, punibile. I bambini sono costretti a imparare questo disvalore molto presto. Il giusto compito di ogni bambino e bambina -vanto e sfoggio di ogni adulto padrone adattato- oltre a quello di eseguire gli ordini senza discutere e contro la sua volontà, dev'essere quello di imparare ad amare il concetto di obbedienza, di farlo amare a sua volta, di difenderlo. Da adulti, questi bambini, siano essi divenuti genitori tradizionali o maestri tradizionali o qualsiasi altro genere di caporale, ripeteranno ai piccoli che disobbedire non è educato, non è civile, non sta bene, e che bisogna imparare a rispettare i più grandi (che nella cultura autoritaria vuol dire sostanzialmente chinarsi benevolmente di fronte alle autorità e ai più ricchi, e servirli). Quindi disobbedire, nella nostra cultura, non è educato, non è civile. Educazione e civiltà: altri due concetti stravolti in funzione della morale autoritaria che modella la coscienza di ognuno e i comportamenti della massa.
Credo sia necessario mettere in discussione ogni cosa, ogni parola, ogni concetto appreso automaticamente, dogmaticamente, ma secondo me quest'operazione di smembramento della cultura acquisita non si può fare se prima non ci predisponiamo a farlo, ci aiuterebbe molto a cambiarci dentro, quindi a cambiare veramente il mondo riportandolo alle sue inclinazioni naturali. Io però vedo che la società inneggia alla cultura, la vuole. Direi benissimo, ma di quale cultura si ha realmente bisogno? Quella della scuola tradizionale? Quella delle librerie sul corso dove Joel Spring e Rudolf Rocker -due nomi a caso- non sono neanche in catalogo? Quella obbligatoria ma 'gentilmente offerta' dagli strumenti mediatici del potere? O si ha più bisogno di una sana e fiera controcultura demistificatrice? E' questione di decidere, di scegliere, oltre che di specificare il tipo di cultura. Dire semplicemente 'viva la cultura' o 'viva i libri' secondo me non ha senso, è bello da ascoltare o dire, ma lo trovo alquanto retorico, incompleto.
Nelle scuole si parla di Gandhi, ma in che termini? A quale scopo? Credo che venga preso in considerazione solo per veicolare il concetto di resistenza passiva, occultando al contempo la pratica della disobbedienza civile, senza la quale qualsiasi resistenza passiva diventa mera pratica masochista. Per fare un esempio di disobbedienza civile, il filosofo Henri David Thoreau, che sul tema scrisse un libro, raccontò in prima persona alcuni episodi a lui accaduti, uno dei quali fu l'atto volontario di non pagare una tassa perché ritenuta ingiusta e poi, senza opporre alcuna resistenza fisica, porse i suoi polsi al poliziotto e alla galera.
'...Per sei anni non ho pagato la poll-tax. Una volta per questo fui imprigionato, per una notte; e mentre stavo lì ad esaminare i muri di pietra massiccia, spessi due o tre piedi, la porta di legno e ferro spessa un piede e le grate di ferro dalle quali filtrava la luce, non potevo fare a meno di essere colpito dalla stupidità di quell'istituzione...'Anni dopo, lo stesso Gandhi, di fronte ai divieti assoluti imposti dagli inglesi sulla produzione e la compravendita di sale, non esitò un momento a disobbedire, a riprendersi quel pugno di sale -dono della natura e del lavoro del popolo- a sovvertire quindi la legge davanti alle stesse autorità e, cosa più importante, davanti al popolo. Si racconti questo nelle scuole, che non sia qualche eccezione, o di quando sempre Gandhi esortò la gente a non pagare le tasse. Ma questo in una scuola non si può dire, perché il non pagare le tasse non è 'azione civile', non è 'educazione'. Per la scuola, il beneducato, la persona per bene, è l'obbediente, meglio se è anche orgoglioso di esserlo. Obbedire invece a se stessi, alle proprie necessità, è un'eresia. Ormai sembra persino che le parole 'disobbedienza civile' si concludano lì, come fosse un concetto astratto immagazzinato, buono da tirar fuori per ogni retorica. Forse ci siamo scordati che, ancora negli anni '70, a quelle due parole ne seguivano altre due: 'disobbedienza civile alla legge'. Penso che se questa società non fosse malata di se stessa, le seguenti parole di Gandhi dovrebbero essere scritte o ripetute in ogni luogo di aggregazione umana:
'...è necessario che tutti coloro che in un modo o nell’altro collaborano con il governo, pagando le tasse, detenendo delle cariche, mandando i loro figli alle scuole statali eccetera, rifiutino la loro collaborazione al governo completamente o quanto più è loro possibile. Si possono ideare anche altri metodi per non collaborare con il governo...'Voi pensate forse che in una qualsiasi istituzione scolastica -sedicente democratica in un Paese sedicente democratico- queste parole di Gandhi siano ben accolte? Sulla base della mia esperienza diretta dico di no. Sono stato accusato, etichettato come sovversivo. Secondo l'autorità scolastica non avrei mai dovuto dire quelle parole terribili ai bambini, perché quelle parole incitano a disobbedire alla legge. Disobbedire è diventato un crimine. Secondo l'autorità scolastica io avrei dovuto parlare soltanto della resistenza passiva, come se l'umanità non la stia già facendo egregiamente con la sua enorme pazienza, e anche molto passivamente, soprattutto in Italia. Avrei quindi dovuto dire ai fanciulli: guardate ragazzi, se ritenete sbagliato e lesivo dei vostri diritti qualsiasi ordine ricevuto, se ritenete che vi sia stato fatto un torto, voi sedete per terra, state buoni e aspettate pazientemente.
Invece quelle parole io le ho dette, ho fatto la mia disobbedienza, ho sovvertito l'ordine, ho reagito al divieto e alla morale comune, e non è detto che poi io mi sia seduto per terra, ma a quel punto avrei potuto farlo. Secondo me, non può esistere alcun tipo di resistenza senza una disobbedienza, senza una sovversione della norma imposta, altrimenti, come dicevo, la resistenza non ha alcun motivo di esistere, è solo masochismo, se non idiozia. Secondo questa sedicente 'società civile', poiché la disobbedienza agli ordini è un reato, un atto di inciviltà, la mia si configura senza dubbio come disobbedienza incivile (l'ho già detto, è tutto stravolto), ma credo che non vi sia nulla di incivile nel salvaguardare la propria dignità, sempre che si voglia dare alle parole 'civile' e 'civiltà' un valore diverso da quello attuale, per cui l'obbedienza alle regole altrui sarebbe finalmente intesa come l'intende Charles Alexandre:
'Per noi, obbedire è cessare di vivere nel momento stesso in cui siamo sottomessi a una volontà esterna; è cessare di essere interamente noi stessi; è sminuirci in modo proporzionale a quanto più aumenta la potenza di colui che comanda. È ancora annichilirsi, farsi assorbire da una personalità estranea, essere una forza meccanica, un oggetto, una cosa passiva al servizio di un dominante'.
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